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 2021  agosto 07 Sabato calendario

Orsi & tori

Dal Corriere della Sera del primo agosto: «Giuseppe Conte, leader M5S, 56 anni, rivendica di aver impedito che i processi per mafia e terrorismo fossero avviati a dissolversi nel nulla».

Si vede che l’Avvocato degli italiani, sicuro un buon avvocato, non è avvezzo alle negoziazioni tecnico-politiche con due professionisti come il presidente del consiglio Mario Draghi e la ministra della giustizia Marta Cartabia. Oppure è già diventato un volpone della politica e vuole incassare un dividendo di notorietà e di pace nel Movimento.
Perché un fatto e’ certo: chiunque abbia seguito la carriera di Draghi non può non sapere quali siano le sue idee e la sua intelligenza negoziale: prima professore e contemporaneamente direttore esecutivo della Banca mondiale, come dire un consesso più politico che finanziario, visto che vi partecipano tutti i paesi del mondo con la necessità di destinare risorse ai più poveri; poi direttore generale del tesoro anche per la negoziazione delle privatizzazione; poi ai vertici di Goldman Sachs, la prima banca d’affari del mondo; quindi governatore di Bankitalia e contemporaneamente presidente del Financial stability forum e, infine, presidente della Bce con in consiglio un mastino come il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann.
Solo l’Avvocato degli italiani, con tutto il rispetto che merita, può arrogarsi il merito di aver fatto sì che i processi di mafia e terrorismo non svaniscano nel nulla. Quella parte della riforma Cartabia è stata messa proprio lì per poter avere qualcosa apertamente da concedere in una trattativa che si annunciava dura, anche perché autore della legge da riformare era stato Alfonso Bonafede, non solo all’epoca guardasigilli ma anche il pentastellato che, da assistente a Firenze del professor Conte, ha portato in politica lo stesso Conte.
Insomma, qualcuno potrebbe mai pensare che Draghi e Cartabia avrebbero lasciato campo libero a mafiosi e terroristi?
Invece, avendo Cartabia introdotto nel primo testo della riforma tempi stretti dei processi anche per i peggiori e più pericolosi reati, l’Avvocato degli Italiani ha potuto così cantare vittoria nell’aver fatto modificare la riforma. Così la fondamentale riforma richiesta anche dalla Ue, che reintroduce il diritto a tempi sicuri per i processi non di mafia e di terrorismo, ha potuto avere anche i voti del M5s.


Niccolò Machiavelli insegna: non pretendere mai che l’avversario vada al tappeto. L’importante è ottenere il risultato voluto. E per fortuna Draghi durante il liceo dai Gesuiti si e’ sicuramente letto Machiavelli.

Così si è anche realizzata una sorta di normalizzazione del Movimento fondato da Beppe Grillo. Degli obbiettivi rivoluzionari che il movimento aveva, ne appare confermato essenzialmente uno: il forte taglio del numero dei deputati. Il reddito di cittadinanza è in precaria situazione e anche la regola, tutta interna, di massimo due mandati per i parlamentari del Movimento appare di fatto superata.

Non c’è né da criticare né da sorridere. È un’evoluzione naturale, quando le regole della democrazia tengono.

Il primo a capire che basare la propria azione sulla protesta e il Vaffa non poteva più reggere in una democrazia imperfetta ma consolidata come quella italiana, è stato il più giovane di tutti, l’attuale ministro degli esteri ed ex capo anche formale del Movimento. Intelligente come pochi, Luigi Di Maio ha capito ben presto che il modo di stare al governo dei due esecutivi come quello con la Lega di Matteo Salvini non avrebbe portato lontano. Ha capito che comportarsi come si comportò a Shanghai per l’inaugurazione del primo Expo dell’import, non faceva presa sugli imprenditori. Era ministro dello Sviluppo economico e dopo che più di un centinaio di imprenditori italiani lo aveva atteso per circa un’ora, fece un discorsetto di 10 minuti e invitò chi voleva ad andare a parlargli anche per farsi un selfie con lui.


Era presente, naturalmente, anche l’allora ambasciatore a Pechino, Ettore Sequi, che ovviamente non pronunciò parola, ma si limitava a guardare scettico lo spettacolo di pochi imprenditori piccoli e medi che aveva accolto l’invito al selfie.

Il secondo governo Movimento-Lega offrì a Di Maio di fare un salto di qualità: ministro degli esteri pur sapendo poche parole di inglese. In tre mesi ha imparato un accettabile se non buono inglese, ma la sua vera fortuna è stata di andare in un ministero dove i dirigenti sono per forza di alto livello, dovendo anche sostenere l’esame più difficile dell’amministrazione dello stato. Come prima cosa, Di Maio ha chiamato a capo di gabinetto proprio Ettore Sequi, che doveva rientrare in Italia. E poi, con l’intelligenza vivissima che tutti gli riconoscono, ha fatto passi da gigante non solo per il suo inglese ma nella comprensione di come gira il mondo. Un grande imprenditore italiano con importanti rapporti con la Cina racconta che, rincontrandolo dopo tre mesi da ministro degli Esteri ha trovato, non solo per la lingua, un politico maturo e capace di analizzare con profondità la situazione internazionale e quella del paese.


Un merito sicuramente di Sequi, che ha sostituito, come segretario generale della Farnesina, la bravissima Elisabetta Belloni chiamata da Draghi a capo del Dis, l’apparato dei servizi segreti. Ma Di Maio trovandosi nell’università che di fatto è il ministero degli esteri, in pochi mesi si è laureato.

Senza l’intelligenza e l’abilità di Di Maio, Conte non avrebbe risolto il conflitto con Grillo. Di Maio è il politico vero del Movimento. È questa un’opinione diffusa fra chi ha potuto seguire le ultime tappe del processo di normalizzazione, se così si può chiamare, del Movimento, ormai indirizzato a un ruolo non di rivolta ma istituzionale nel parlamento.

La rivalità fra Di Maio e Conte è inevitabile e se ne ha evidenza nell’intervista a Repubblica di mercoledì 4 del ministro degli esteri.


Domanda: Nell’intervista alla Stampa l’ex premier sembra accusarla di passare interpretazioni ai giornali per danneggiarlo. Vi fidate l’uno dell’altro?

«In questi giorni si mette al centro il gruppo parlamentare per alimentare retroscena, io invece vorrei ringraziare tutti i deputati e i senatori perché stanno facendo un lavoro immenso. La fiducia tra me e Conte non è in discussione, ma da giorni sono io che ricevo attacchi con delle veline e confido ancora che arrivino smentite. Quello che non si è capito è che queste diatribe interne non indeboliscono solo il Movimento, ma chi lo guida. È sempre stato così».

Questione inevitabili fra chi più giovane, da sempre nel movimento, capo sostanziale a Roma, e chi sentendosi professore e capo formale, grazie a Di Maio, del Movimento, vuole esserne vero numero uno.


Ma anche l’azione di Conte di fatto porta all’istituzionalizzazione di quello che è stato il Movimento di protesta che ha addirittura ottenuto la maggioranza relativa nel Parlamento. Il retroscena che pochi conoscono è il rapporto speciale fra Conte e Gianni Letta, il saggio braccio destro politico di Silvio Berlusconi.

Per Conte, Letta è stato un vero pesce pilota durante la navigazione come primo ministro.

Chi segue i consigli di Letta, anche se con le ambizioni di leader assoluto di Conte, non può certo riportare il Movimento ai tempi del Vaffa. E questo è un bene per la democrazia italiana, democratizzare il Movimento è stato un disegno preciso. La partita fra Di Maio e Conte, invece, sarà lunga. E Draghi sa come destreggiarsi fra i due, anche se la sua simpatia e stima maggiore va al più giovane ministro degli esteri.

* * *


Assai più spinosa è la vicenda Mps-Unicredito, dove gli M5S avevano raggiunto l’obbiettivo di un consiglio di loro gradimento per tentare di far restare pubblica la banca senese. Ma è evidente che con Draghi a capo delassunti governo è difficile disattendere gli impegni con la Ue, specialmente se si tratta di una banca. Una banca che non avrebbe mai dovuto fare questa fine.

“Siena mi fe’, disfecimi Maremma”, rispose Pia dei Tolomei nel girone dantesco. Se ci fosse un girone per le banche e Dante interrogasse il Monte dei Paschi per sapere come mai si trovasse all’inferno, la risposta potrebbe essere simile: «Siena mi fe’, disfecemi i sindaci, i presidenti della provincia e la Fondazione”. Peccato di superbia.

Infatti, la più antica banca italiana ed europea ancora esistente, avrebbe potuto avere un futuro sereno e in crescita se il potere degli enti locali e dei loro amministratori, da sempre padroni della gestione e dei programmi della banca, non avessero risposto no quando l’allora governatore Antonio Fazio propose la fusione con BNL e di fronte al diniego impose che la Fondazione scendesse sotto il 51%. La reazione fu di trasformare in azioni di risparmio quanto serviva ad avere meno voti del 51%. Fu allora che la superbia senese rilanciò iniziando una stagione di acquisizioni, la più letale di tutti quella della Banca Antonveneta, dove un uomo della furbizia dell’ex-braccio destro di Sindona, Silvano Pontello, era riuscito a trasformare la banca di Padova da popolare in banca ordinaria, fondendola con la Banca nazionale del lavoro. Un’ ottima operazione per i numerosi industriali e industrialotti veneti che si erano fidati di Pontello. Infatti, dopo un giro fatto in Abn Amro per finire assegnata alla Banca spagnola Santander, nel 2007 il Monte la acquista per 9 miliardi di lire, naturalmente con autorizzazione Bankitalia (governatore Mario Draghi). Scelta infelicissima di Siena e anche sfortunata perché dopo pochi mesi scoppiò il crack Lehman.


In altre parole, invece di aggregarsi con Bnl e perdere quindi la maggioranza assoluta, la Fondazione, e per essi il Municipio e la Provincia, per superbia, fecero indebitare la banca di una cifra importante, creando poi derivati e altri artifici che portarono al crack.

Un crack misto di superbia, di esaltazione per essere la banca più antica, di arrivismo degli amministratori, della città tutta che invece di accontentarsi che la Banca desse lavoro mediamente a una persona per famiglia e avesse sempre fatto fronte a tutte le necessità della città, a cominciare dai rifacimenti dei costumi del Palio, non si è accontentata.

Se questo è il lato per cui tutti finirebbero in un girone dantesco (probabilmente il più duro se fosse proprio il Fiorentino a decidere, considerata la Battaglia di Montaperti), ce n’è anche uno sicuramente positivo. Il ruolo fondamentale che Mps ha avuto nello sviluppo della Toscana, delle imprese industriali, artigiane e agricole, grazie anche a direttori generali del valore di Carlo Zini e Divo Gronchi, a cui Bankitalia ha affidato numerose operazioni di ristrutturazione e salvataggio come quella della Popolare di Lodi. I due dg storici avevano allevato un degno successore, Antonio Vigni, ma con il grave handicap di essere senese, al contrario dei suoi maestri uno fiorentino e l’altro pisano. Tutto ciò ha contato molto e nonostante il rigore e la serietà di Vigni, la linea della crescita a ogni costo è passata.


L’Mps non è soltanto un marchio storico da preservare, è soprattutto e nonostante tutto una struttura fondamentale per il centro Italia poiché banca del territorio. Forse il nuovo ceo di UniCredit, Andrea Orcel, senza preoccuparsi di copiare, dovrebbe guardare alla scelta fatta da Intesa Sanpaolo proprio preservando il rapporto con i territori, attraverso la direzione definita Banca dei territori guidata con successo da Stefano Barrese. Proprio per rimediare al peggio che poteva toccare a Unicredito sotto la guida del francese della legione straniera, Jean Pierre Mustier: la deitalianizzazione della banca, pensando solo a vendere i gioielli (Pioneer per il risparmio gestito, Fineco prima banca on line), vendere all’ingrosso e a valori discutibili npl e utp, con l’obbiettivo di portare i resti di Unicredito a una banca francese.

Se non sbaglio, Dottor Orcel, lei era in Santander quando la banca spagnola fece il grande affare di vendere Antonveneta a Mps. Saprà quindi come meglio valorizzare marchio e territorialità di Mps.