Corriere della Sera, 7 agosto 2021
Rosalino in arte Ron. Intervista
Che nella vita avrebbe fatto musica l’ha capito da bambino. «A 8 anni ho fatto il primo spettacolo cantando 24 mila baci e ballando il twist. Lì ho detto: questo è il mio lavoro». Oggi che di anni ne ha 67, Ron si guarda indietro per festeggiare (con un anno di ritardo, causa pandemia) una carriera lunga mezzo secolo. Cinquant’anni di canzoni che rivivono sul palco del suo tour estivo, che il 29 agosto lo portano a Forlì a ritirare lo «Special Award Imaginaction» al Festival internazionale del videoclip e che culmineranno, a inizio 2022, in un nuovo disco.
Dopo il battesimo del palco a 8 anni cosa è successo?
«Sono andato a scuola di canto dalla maestra del paese. Ho cominciato a fare concorsi, accompagnato dai miei genitori perché ero minorenne. A 15 anni fui notato da un talent scout della Rca che mi chiamò a Roma, dicendo che un cantautore voleva farmi sentire una possibile canzone per Sanremo».
Come andò?
«Incontrai Lucio Dalla. Arrivò con quattro ore di ritardo, tanto che mio padre disse “torniamocene a casa”. Era in sedia a rotelle, tutto ingessato perché aveva avuto un incidente, gli uscivano solo barba e occhialetti. Nell’attesa si avvicinò Renato Zero, ancora non famoso, vestito leopardato. Io rincuorai mio padre: “dai, non saranno tutti così”».
Nel 1970 debuttò a Sanremo, in coppia con Nada.
«Eravamo due sedicenni. Avevo l’istinto del ragazzino dei concorsi e mi ero abituato al pubblico. Certo c’erano Zanicchi, Vanoni, Celentano: tanti che ammiravo. Ma cantai senza paura».
Fu Dalla a suggerirle di passare da Rosalino Cellamare a Ron. Come accadde?
«Mi disse “basta con sto Rosalino. Poi invecchi, non puoi chiamarti così tutta la vita. Comincia a usare Ron”. Ma Lucio trovava un soprannome a tutti. Aveva un istinto fortissimo, un sesto senso. E con lui si rideva sempre».
Insieme avete anche scritto «Piazza grande».
«Partimmo in nave da Napoli per dei concerti in Sicilia. Avevo 18 anni, ero felice. Si addormentarono tutti sul ponte e io presi la chitarra: non avevo mai scritto nulla. Lucio si svegliò e mi chiese “cos’è sta roba?” Si mise a fare l’inciso, lo unimmo alle mie strofe. In 20 minuti avevamo la musica. Pensai: “Allora ce la faccio anch’io”».
Nel 1979 seguì Dalla e De Gregori nel mitico tour Banana Republic.
«C’era la voglia di uscire dall’incubo degli anni di piombo e trovammo gli stadi stracolmi. Fu fantastico».
Oggi tanti artisti giovani annunciano concerti in stadi e palazzetti. È prematuro?
«Un tempo gli stadi erano per De André, Dalla, De Gregori, Venditti. Adesso non si pensa alla maturità di un artista. Appena arriva un ragazzo che si fa notare è come il Re Mida e bisogna sfruttarlo, è molto triste. Io ne ho presi di fischi, anche in Banana Republic perché erano gli altri due i grandi, ma la gavetta mi ha abituato anche a quello. Oggi molti ragazzi, con i social e con gli X Factor, cominciano che sono già famosi».
Le piace qualcuno?
«Ultimo è molto bravo. I Maneskin fanno un rock tirato che serve molto adesso, li trovo eccezionali: speriamo nascano altri gruppi».
Nel 1996 fu lei a vincere Sanremo con «Vorrei incontrarti fra cent’anni» insieme a Tosca. Cosa ricorda?
«Non ci speravamo. Così la sera della finale non aspettammo il verdetto e andammo al ristorante. Avevamo un tovagliolone al collo per mangiare gli spaghetti con l’aragosta quando ci chiamarono dicendo che eravamo nei primi tre. Scappammo via di corsa».
Ci tornerebbe?
«Per il momento non è contemplato. E poi decidono gli organizzatori. Se decidono che va bene uno nato ieri, va così. Io comunque non mi vedrei in gara. Sarebbe carino poter andare per raccontare questi 50 anni».
Che momenti memorabili le vengono in mente?
«Dei miti che ho incontrato: un giorno ero a New York in ascensore e salì Bowie! La prima cosa che pensai fu stupida: ero felice perché era più basso di me».
Altri?
«Con Lucio a inizio anni 70 scrivemmo la musica per un film di Monicelli con Sophia Loren, La Mortadella. Lei doveva cantare e mi dissero di entrare in studio. Vidi questa donna di una bellezza infinita e svenni. Mi chiese: “Senta, ma lei canta? Scusi, ma vivo a New York”. Il giorno dopo tornò col mio 45 giri per farselo firmare. Questo ti fa capire chi è una persona».
Il suo prossimo album cosa racconterà?
«È un disco fatto in pandemia, con molte difficoltà. Ma non sono mai stato uno che se non firma una canzone si ferma. Meglio una bella canzone scritta da altri che una tua mediocre. Anche di Una città per cantare io non ho scritto niente, eppure tanti mi identificano con quel brano».
Cosa si porta dietro di questi 50 anni?
«Credo di avere una bella storia. Ho avuto tanto dagli altri ma spero che anche loro, in qualche modo, abbiano avuto qualcosa da me».