Corriere della Sera, 7 agosto 2021
Lo sbarco degli albanesi sulla Vlora, trent’anni fa
«Io limousine!», urlò quel giorno nella calca inverosimile, pazzo di gioia, uno dei ragazzi albanesi bagnati fradici che rischiando l’osso del collo si erano calati in mare per raggiungere la banchina del porto di Bari. «Io limousine!». Quello era il suo sogno. Liberarsi dei vestiti laceri e delle scarpe sfondate, trovare qualcuno che gli desse una mano, fare fortuna, comprarsi una bella macchina da mostrare un giorno al ritorno nel suo Paese delle Aquile
Un sogno spropositato. Di chi aveva visto clandestinamente (era proibitissimo) troppe puntate della tivù italiana più allegra e scanzonata tipo Drive-in, Quelli della notte, TeleMike, e si era illuso che l’Italia fosse il paese della cuccagna dove schioccando le dita, con un po’ di buona sorte, si potessero fare soldi a palate. Un po’ come i nostri nonni convinti che le strade di New York, scrisse Charles Dickens, fossero lastricate d’oro.
Era l’8 agosto 1991. E quel giorno di trent’anni fa la comparsa improvvisa e impattante della Vlora, coperta da un tappeto di oltre ventimila uomini, donne, ragazzini che avevano sequestrato la nave a Durazzo per farsi sbarcare in Puglia, segnò per l’Italia una svolta epocale. Il passaggio definitivo da Paese di emigrazione, dal quale se n’erano andate in un secolo e mezzo oltre 27 milioni di persone, a Paese di forte immigrazione. Certo, la svolta «tecnica» (un emigrato in meno in partenza, uno in più in arrivo) c’era già stata da una quindicina d’anni. E già a marzo di quel 1991 erano arrivate a Brindisi cinque navi e una decina di barche per un totale di 23.000 immigrati in una città di 80.000 abitanti che, letti negli occhi degli albanesi la fame, la speranza, lo sbandamento di chi usciva da un Paese ridotto per quarantuno anni in miseria sotto la dittatura buro-comunista di Enver Hoxha, si erano fatti in quattro per aiutare tutti. Restandone però turbati: erano troppi, tutti insieme. La Vlora, poi, fu una frustata.
A gennaio, i primissimi reportage da Tirana, tra i quali uno della Rai di Isabella Stasi Castriota Scanderbeg (che portava nel cognome stesso il legame secolare con l’eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Scanderbeg, ucciso nel 1468 dopo aver tentato invano di opporsi alla conquista dei turchi), avevano mostrato un’Albania stremata. Un paio di scarpe costavano una settimana di lavoro, un abito un mese (70 mila lire italiane dell’epoca, 68 euro più spiccioli di oggi), un televisore sei mesi. Le riforme degli eredi del despota comunista, nonostante fossero passati sei anni dalla sua morte, erano state così timide che era stato aperto un solo ristorante privato, più qualche banco di ambulanti di kebab. Liberato dopo ventisei anni di carcere per reati d’opinione, lo scrittore dissidente Fatos Lubonja viveva ammucchiato col resto della famiglia «nella vecchia casa del nonno», ex funzionario un tempo fedele al regime: «Abitavamo tutti assieme: mio zio con sua moglie in una stanza; suo figlio in un’altra stanza con tre figli e la moglie; mio padre e mia madre nella terza stanza; mio fratello con la moglie e due figli, nel corridoio della casa, chiuso come una stanza. Per me e la mia famiglia non c’era più posto, quindi ci sistemammo in cantina. In tutto eravamo 17». Si consideravano fortunati. Altri stavano peggio.
L’Italia, per gli albanesi, fu una scelta naturale. Era vicina via mare quanto Venezia a Grado, aveva un Pil pro capite di 21.956 dollari americani (dati Banca mondiale) contro i 336 degli albanesi, ma soprattutto il nostro Mezzogiorno ospitava dal XV secolo una forte comunità arbëreshë rifugiata sulle nostre coste appunto dopo la conquista turca dell’Albania. Un legame fortissimo. Al punto che uno dei più grandi poeti in lingua albanese fu Girolamo De Rada e il Risorgimento italiano vide gli albanesi tra i protagonisti. Era arbëreshël’irredentista Agesilao Milano che attentò alla vita del re borbonico delle Due Sicilie Ferdinando II, arbëreshë il futuro leader della sinistra storica Francesco Crispi, arbëreshë il luogotenente di Giuseppe Garibaldi Domenico Damis, arbëreshë i liceali del collegio albanese di San Demetrio Corone, che al passaggio dei garibaldini verso Napoli si unirono entusiasti sventolando il tricolore.
Fatto sta che i nuovi arrivati, piombati in massa e in quel modo nel nostro Paese furono per larga parte degli italiani uno shock. Non parevano venire da poche miglia nautiche, ma da un’Italia miserabile del secolo prima, quella descritta fa Stefano Jacini nell’Inchiesta parlamentare sulla miseria: «Nelle valli delle Alpi e degli Appennini, ed anche nelle pianure, specialmente dell’Italia Meridionale, e perfino in alcune province fra le meglio coltivate dell’Alta Italia, sorgono tuguri ove in un’unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame. E tali catapecchie si contano forse a centinaia di migliaia». Un’Italia antica e violenta vista dalla «nuova» con spavento. E rifiuto.
Tanto che il governo di Giulio Andreotti, il settimo della serie, non vide alternativa che ributtare quanti più albanesi possibile indietro, da dove erano venuti. Fu faticosissimo, il rapporto iniziale. E negli anni si sarebbe inasprito anche per gli errori imperdonabili di tanti immigrati che, miserabili, anarcoidi e inselvatichiti da una dittatura isolata dal mondo, dove ogni legge puzzava di sopruso e ingiustizia, parevano spesso riottosi al rispetto delle norme più elementari. Fino a tirarsi addosso campagne d’odio culminate in uno slogan del leghista Marco Formentini alle Comunali del 1997: «Un voto in più a Formentini, un albanese in meno a Milano». Per qualche anno toccarono insomma in sorte ai figli del Paese delle Aquile tutti gli insulti, le maledizioni e le accuse più infamanti che un secolo prima erano stati lanciati dagli xenofobi svizzeri, britannici, francesi, americani, australiani contro quei nostri nonni che avevano fatto più fatica a inserirsi nei Paesi in cui erano emigrati.
Trent’anni dopo quello sbarco indimenticabile, i numeri stessi (imprenditori di successo, partite Iva, studenti universitari, passaporti italiani, rimesse all’estero, presenza nelle carceri calata all’11%...) bastano a dire quanto gli albanesi siano faticosamente riusciti a inserirsi nella realtà italiana meglio di altri. E a smentire via via molti dei vecchi stereotipi. Che fine abbia poi fatto quel ragazzo che sognava la limousine non lo sappiamo. Ma forse, chissà, è andata bene anche a lui.