la Repubblica, 7 agosto 2021
La medaglia d’oro di Luigi Busà
Lo chiamano il Gorilla di Avola, ma da piccolo gli hanno detto molto di peggio. Se solo si potesse immaginare, quel bambino preso in giro perché paffutello, «anzi obeso, io ero un obeso» dice Luigi Busà, anni dopo col tempio delle arti marziali in pugno, al centro esatto del Nippon Budokan a un passo dal Palazzo Imperiale. Nel karate che fa parte di quelle mura e di questo paese dove tutto diventa leggenda, Okinawa e la dominazione che costrinse la popolazione privata delle armi a inventarsi una forma di combattimento col proprio corpo. E il bimbo obeso, sarà sempre lui, con la sua medaglia d’oro nel kumite, a sorpassare la leggenda di Roma 1960 (e Los Angeles 1932), quelle 36 medaglie che sembravano la perfezione irraggiungibile tra sport, benessere e creatività. Oltre la Dolce Vita dello sport, lui che di dolce da bambino non ha avuto molto, «il messaggio vero di questa medaglia è che deve essere di tutti, un regalo che ho l’onore e il piacere di condividere veramente. A tutti i ragazzi dico che la vita non è facile, io ho subito insulti da piccolo, vengo da un paese del sud, per carità bellissimo come Avola, in cui devi sgomitare. Però ce l’ho fatta, e ai ragazzi dico che se ce l’ho fatta io, ci possono davvero riuscire tutti».
Basta partire da un’alimentazione corretta, di cui lui è diventato un cultore attento al minimo dettaglio, e basta anche essere ben consigliati. Appena battuto l’azero Aghayev in finale, Busà urla dentro la telecamera «Ce l’ho fatta mamma!». Ma quando i pensieri si raffreddano, dopo la premiazione vissuta con gioia quasi selvaggia, è ora di dire «Devo fare festa con papà». Col padre Nello, che ha allenato anche le due sorelle Lorena a Cristina, l’unico ad aver visto un potenziale ai tempi degli insulti per strada, «quando mi piaceva mangiare, a 13 anni pesavo 94 chili ed ero più basso di adesso. Mio padre è stato il mio primo maestro e sempre lo sarà» ha raccontato il campione olimpico. Assistito, e qui si torna al Budokan, da una figura carismatica, più simile a un santone che a un coach. Longilineo, barba e capelli bianchi, poche parole. Si chiama Claudio Guazzaroni, era un campione in quell’epoca in cui il karate era disperso in mille rivoli, dalla spiritualità all’esibizionismo, prima che gran parte dell’attività confluisse sulla strada che porta alle Olimpiadi attraverso la federazione (Fijlkam). Nei tre giorni più grandi della disciplina orientale, ammessa per la prima volta ai Giochi, Guazzaroni è accanto a Busà che ha perso contro il kazako Azhikanov, una batosta che instilla dubbi fino a quando l’uomo di poche parole assicura: «Puoi ancora vincere l’oro». Parole poche, ma buone: da quel momento Busà batte il tedesco Bitsch per senshu, assegnato all’atleta che porta il primo punto in un match finito in parità. Poi tocca ad Aghayev, azero che sembra un cugino di Sandokan, rivale di mille battaglie di cui Luigi ricorda soprattutto una: «Quando combattemmo a Bercy davanti a 25 mila persone, e lui era imbattuto da un po’ di tempo. È stato favoloso, la ricordo come la vittoria più bella». Sul confronto finito 3-1 per l’azzurro, avrà da ridire il tecnico tedesco Nitschmann: «Chiunque ne capisce sa che è stato un match finto, in modo che entrambi potessero passare». Un’illazione a cui Busà ribatte con un fiero e disgustato silenzio.
Muto resta. Concentrato su quel che manca, la semifinale vinta con l’ucraino Horuna, e la rivincita con Aghayev in cui interviene pure il medico e l’azero viene contato. Colpi duri, durissimi, che Busà ha preso e restituito, dimostrandosi il più forte anche se le tracce restano a lungo, «i lividi li abbiamo addosso per settimane». Bastava avvicinarsi al tatami del Budokan per sentire quanto pesino i colpi sui corpi degli atleti, in questa affascinante disciplina apparsa a Tokyo e subito destinata a sparire a Parigi 2024, col disappunto dei suoi interpreti che da una parte sentono di aver ben sfruttato l’occasione in mondovisione, dall’altro non riescono a capire perché non li abbiano voluti nel programma francese. Busà è pronto a spendersi: «Non so come funziona, ma potrei anche andare a parlare al presidente del Cio. Il karate è bello da vedere, per noi è la prima volta ma potrebbe essere anche l’ultima».
Di tempo non ne è rimasto molto, anche per la sua voglia di bluffare («Se non andiamo a Parigi, allora mi preparo per Los Angeles 2028»). Luigi Busà ha il culto del suo fisico ma anche tanti sogni per il futuro fuori dallo sport, e intanto è un uomo sposato (con Laura, karateka pure lei): «Voglio diventare un imprenditore, un businessman, e poi tornare giù, alla mia terra e aprire un lido balneare, fare una “chicca”, qualcosa per 40/50 persone di alto livello, posto di mare bellissimo, drink, relax e spensieratezza. Lavorare quattro-cinque mesi l’anno e per il resto girarmi il mondo». Il bambino paffutello, preso in giro al paese, resta al sicuro dentro di lui. Ora c’è un karateka a difenderlo.