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 2021  agosto 07 Sabato calendario

Storia del delitto di via Poma

La sera del 7 agosto 1990 negli uffici dell’AIAG (Associazione Italiana Alberghi della Gioventù), in un elegante stabile romano di via Carlo Poma, fu rinvenuto il cadavere di Simonetta Cesaroni, una ragazza di vent’anni che vi lavorava saltuariamente come contabile. L’ora della morte veniva collocata tra le 17,15 e le 19. Il corpo presentava 29 ferite di arma da taglio, inferte principalmente nelle zone cosiddette sensibili, era seminudo e recava segni di un morso al seno. Tutto indirizzava gli investigatori a un delitto a fondo sessuale. 
IL PROFILO
Da tempo la criminologia forense, intesa come disciplina volta a studiare la dinamica del reato, il contesto della sua esecuzione e il profilo psicologico dell’autore, aveva fissato alcuni protocolli di intervento: la tempestività, l’ordine e la nettezza dell’ispezione dei luoghi, poi la documentazione del contesto, la raccolta dei reperti e la loro conservazione; infine l’ esame autoptico e le conseguenti indagini tossicologiche. Purtroppo nella concitazione del momento queste regole non sempre vengono rispettate: chi si trova improvvisamente di fronte a un cadavere straziato in un lago di sangue non reagisce con animo freddo e pacato. In via Poma queste norme furono disattese. Furono forse errori scusabili, che però costarono lacrime e sangue a una serie di innocenti.
I sospetti si indirizzarono subito verso il portiere dello stabile, Pietrino Vanacore: aveva l’opportunità, perché aveva l’accesso ai locali, e il suo alibi traballava. Quanto al movente, trattandosi di un delitto passionale, poteva risiedere nei recessi oscuri di una mente perversa e dissimulatrice. In realtà l’occasione e il movente sono sempre indizi ambigui, se non sono assistiti dalla mancanza di ipotesi alternative E qui ve n’erano molte, ma sul momento furono trascurate. Gli investigatori si concentrarono su questo poveretto, che, come molti innocenti, si difese in modo confusionario. Vanacore fu arrestato, ma dopo 26 giorni di cella gli indizi contro di lui si vaporizzarono: persino le tracce ematiche trovategli sui vestiti si rivelarono microemorragie del suo stesso organismo. Fu scagionato, e si ripartì da zero. 
A questo punto le ipotesi si affastellarono, corroborate, nella più perniciosa e pedestre tradizione, dalla consueta dietrologia: si sospettò Federico Valle, tirato in ballo non si sa come, e, successivamente archiviato. Si ipotizzarono collegamenti con la banda della Magliana, il Vaticano, i poteri occulti e i servizi segreti, naturalmente deviati. Mancavano solo la P2, la Cia e il Mossad. Si spesero invano risorse ed energie, non si approdò a nulla, e fummo daccapo. Il caso sembrava insolubile. 

I REPERTI
Quattordici anni dopo, le indagini ripresero. Vennero riesumati vari reperti (indumenti della vittima, suppellettili ecc) e si iniziano le comparazioni con il DNA di 30 presunti sospetti. Qui, per i non addetti ai lavori, va fatto un chiarimento. La presenza di tracce del DNA di un individuo significa tutto e nulla. In primo luogo perché possono risalire a un momento antecedente al fatto. Poi perché il contatto può essere stato indiretto, come quando un rapporto sessuale avviene in tempi vicini con un(a) partner che ne ha avuto un altro poco prima. Infine perché può anche essere uno strumento micidiale di calunnia: se mi impossesso come Jago di un fazzoletto di Tizio, posso trasferirne le tracce sugli indumenti di Caio. Per di più i reperti vengono talvolta conservati imperfettamente, o addirittura confusi. Insomma il DNA, come tutte le evidenze scientifiche, dev’essere filtrato dalla nostra intelligenza critica. Da solo, è una cornice senza il dipinto. Ma torniamo alle indagini. 

L’AGGRESSIONE
Sugli indumenti di Simonetta furono trovate tracce di saliva del fidanzato, Raniero Busco, che la ragazza, nel suo diario, aveva descritto come aggressivo. Tanto bastò perché il poveretto fosse imputato di omicidio aggravato, e rinviato a giudizio. Il processo iniziò il 3 febbraio 2010, vent’anni dopo i fatti. Furono sentiti sette consulenti per l’accusa, quattro per la difesa, un perito psichiatra e decine di testimoni sulle circostanze più svariate. Il 26 gennaio 2011 la Corte, dopo poche ore di camera di consiglio, condannò Busco a 24 anni di reclusione, Il processo era durato più di quello di Norimberga. Si andò in Appello, e qui cambiò tutto. La Corte dispose quattro nuove perizie: Pm, parti civili e difensori nominarono un’altra marea di consulenti: alla fine l’imputato venne assolto per non aver commesso il fatto. Non finì qui. Il nostro sistema, a differenza degli altri analoghi anglosassoni, consente all’accusa di impugnare anche un’assoluzione, malgrado il principio costituzionale che la colpevolezza dell’imputato debba essere dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio: come fai infatti a condannare se un altro giudice ha già dubitato al punto da assolvere? Ma queste sono le stravaganze della nostra sgangherata giustizia. Così la Procura non si arrese, e ricorse in Cassazione, che il 26 febbraio 2014 confermò l’assoluzione di Busco bacchettando severamente gli investigatori e i magistrati che lo avevano condannato. 

LA NOTTE
Nel frattempo, nella notte tra l’8 e il 9 marzo 2010 Pietrino Vanacore si era legato le gambe con una fune, e si era gettato in mare. Il suo corpo fu recuperato giorni dopo assieme a un biglietto, in cui il suicida si arrendeva, logorato da tanti anni di calunnie e di insinuazioni. Quanto a Raniero Busco, chiese soltanto che ci si dimenticasse di lui. 
Ci sono due aspetti dolorosi di questa vicenda, che si aggiungono alla tragedia della morte di Simonetta Cesaroni. Il primo è che il caso, salvo improbabili colpi di scena, è destinato come tanti altri a restare insoluto. Non è una prerogativa solo italiana. Al mondo una buona parte di delitti rimangono impuniti, e nessuno Stato può dirsi infallibile. Il secondo è il sistema giudiziario che ha tenuto sulla graticola per anni un innocente. Una sentenza di proscioglimento così radicale significa infatti una raffica di cantonate investigative e giudiziarie. Ma proprio per questo è difficile individuarne i responsabili, perché questi errori si sedimentano e si accumulano, per usare un’espressione manzoniana, come il sudiciume quando si spazza la cucina. Sono attribuibili alla polizia giudiziaria, che ha svolto le indagini, ai consulenti che le hanno avallate,: ai PM che le hanno recepite, al Gip che disposto il processo, e alla Corte d’assise, che ha condannato un innocente. E non è tutto: questa Corte era composta in maggioranza da giudici popolari, estratti a sorte tra i cittadini, con diritto di voto pari a quello dei togati. Davanti a tanta complessità, possiamo dunque auspicare un sistema migliore, più rapido e più garantista. Ma senza farci troppe illusioni. La giustizia umana è fallibile. Per questo, come insegnava il più grande dei filosofi, occorre postulare quella divina.