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 2021  agosto 06 Venerdì calendario

Le troppe ombre sul lavoro

Che l’Italia sia una Repubblica democratica, destinata a rimanerlo, non pare in discussione. È piuttosto quel «fondata sul lavoro», caposaldo dell’Articolo 1 della nostra Costituzione, che sembra aver perso nel tempo, e ultimamente molto più che in passato, la funzione di architrave del nostro sistema. L’arrivo del Covid, e la conseguente faticosissima risalita dal buco nero dove ci ha precipitati, hanno accelerato questa deriva, le cui conseguenze però non sollevano l’allarme che forse meriterebbero. Ripartire in sicurezza è la condizione prima che il governo richiede, e all’occorrenza impone, al Paese e alla parte più spericolata della propria maggioranza, che si appella a improbabili violazioni delle libertà quando si tratta invece di limitare i danni che la variante Delta del virus sta provocando, specie tra i giovani, la frontiera adesso più esposta. 
Ripartire in sicurezza dovrebbe valere anche per il lavoro, ma non sta succedendo. Come dimostrano i numeri sugli incidenti mortali, tre al giorno, che scompigliano un pochino l’onda dell’emozione pubblica soltanto quando a perdere la vita sono donne giovani e madri, come Luana d’Orazio inghiottita da un orditoio a maggio o Laila El Harim, rimasta incastrata nelle lame di una fustellatrice a inizio di questo agosto. Il Corriere della Sera ha dedicato ieri una pagina a cura di Riccardo Bruno a queste vittime del lavoro.
V ittime non «sul» lavoro, ma proprio «del» lavoro, e per niente «bianche», che i risparmi colposi in sicurezza hanno semmai altri colori, meno neutri. Nella pagina ci sono 3 0 piccole foto in bianco e nero che raccontano quanti di questi lutti fossero evitabili. Christian schiacciato da una fresa; Maurizio, travolto da un carico di barre di cemento nel giorno del suo quarantaseiesimo compleanno; Marco, ribaltato con il suo muletto; Florenzo, precipitato da un ponteggio; Angelo, schiacciato da un camion che riparava; Andrea e Alessandro, asfissiati dal gas. Dice il compagno di Laila, Manuele Altiero, padre di Rania, la loro figlia piccola: «Il mese scorso le avevo regalato l’anello di nozze. Oh, lei stava in fabbrica anche 11 ore. Le dicevano: siamo in ritardo nelle consegne, puoi fermarti un po’ di più? E Laila si fermava, figurarsi». 
Già, figurarsi. Trovare un posto sta diventando un affare sempre più complicato, rischiare di perderlo significa consegnarsi a un futuro incertissimo. E che qualcosa non stia funzionando come dovrebbe lo certificano i numeri imbarazzanti delle ispezioni nelle aziende, che pure sono pochissime perché risibile la quantità del personale addetto ai controlli. Nel 2020, le irregolarità su 7 mila 500 aziende testate sono state l’86 per cento. Si è mosso persino il presidente Mattarella, che l’ultimo Primo maggio aveva richiamato al rispetto del presupposto fondamentale del famoso Articolo 1: «Il diritto al lavoro è diritto alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Sono ancora troppe le morti a causa di norme eluse o violate. Non è tollerabile». È di queste ore la chiamata del capo dello Stato al ministro competente, Andrea Orlando, per capire che cosa abbia intenzione di fare il governo per interrompere, o almeno tamponare, questa ferita al cuore stesso della Costituzione. Risposta: è già stata attivata una cabina di regia eccetera eccetera. 
Si affiancherà a un’altra simile, in allestimento per la prossima settimana, che avrà il compito di dare qualche riscontro concreto all’infilata di licenziamenti, con zero preavviso né un minimo di rispetto per la dignità di chi si trova all’improvviso senza più un posto. Li hanno disposti imprenditori che hanno aspettato il 30 giugno (fine del blocco da pandemia) per subito scattare a serrare porte e imprese. E spesso a dispetto di conti tutt’altro che in sofferenza. L’elenco è già lungo e promette di estendersi con un effetto valanga: Gnk di Campi Bisenzio (422 dipendenti), Henkel di Lomazzo (81), Giannetti di Ceriano Laghetto (88), Whirpool di Napoli (350). C’è chi l’ha saputo con una mail, chi con un messaggio su WhatsApp, e tutti «no reply», cioè senza possibilità di risposta. Tanto è inutile, tanto chiudiamo, tanto ci trasferiamo in Bulgaria. Al ministero dello Sviluppo Economico sono già aperti 99 tavoli di crisi, con in ballo 55.817 posti. E siamo a poco più di un mese dal via libera ai proprietari, dopo che sono stati ristorati dalle perdite per un anno e mezzo di attività variamente ridotta per Covid. Anno e mezzo durante il quale molti dei loro dipendenti non hanno lesinato sacrifici, anche nell’assumersi rischi da contagio, pur di salvaguardare il loro bene più prezioso: non la salute, ma il posto.
A ben guardare, la situazione generale non sarebbe così compromessa, se è vero che le stime ufficiali parlano di una crescita economica del più 6 per cento, con la prospettiva di recuperare i livelli pre Covid già dal primo semestre 2022. 
Eh, ma c’è la concorrenza straniera, ci sono da affrontare i costi dell’indifferibile ammodernamento tecnologico. Esemplare in questo senso l’allerta lanciata da Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis, il gruppo automobilistico nato dalla fusione tra Fca (l’ex Fiat) e Peugeot. Pur rallegrandosi di una semestrale che ha visto salire i ricavi del 46 per cento, con un utile di 5,9 miliardi di euro, Tavares ha appena allungato un’ombra sul destino degli stabilimenti del gruppo in Italia, nonostante un prestito a suo tempo del nostro Stato da 6,5 miliardi di euro proprio per stornare quell’ombra. «Abbiamo avviato un dialogo costruttivo con i sindacati e quasi tutti (quasi, ndr ) hanno capito la portata della transizione energetica. Se manteniamo lo status quo, ci mettiamo nei guai. Ma accelerare sull’elettrificazione aumenta gli investimenti del 40 per cento, che quindi andranno ammortizzati». Il sospetto è che alla voce «ammortizzare» rientreranno i costi del personale, i primi e più facili da tagliare, vuoi con la soppressione di linee di produzione, vuoi con il ridimensionamento di stabilimenti (Mirafiori, Cassino, Pomigliano) che già viaggiano a marce ridotte e con un ampio sostegno di cassa integrazione, che solleva parecchio l’azienda, un po’ meno le spese dello Stato e le buste paghe dei dipendenti.
Ma quando le ombre si allungheranno ancora e ancora, fino a diventare certezza di un futuro buio, chi difenderà i lavoratori? Quale partito si farà carico di fare diventare questa, la difesa del lavoro, la madre delle prossime battaglie? Tradizionalmente, è un compito che è da sempre proprio della sinistra, con il vecchio Pci, e in diverso modo anche dell’altra grande forza popolare del Paese, la Dc, sia pure per vie meno identitarie e ideologiche. L’impressione è che stavolta prevarrà un generico sostegno più di bandiera che di sostanza, temperato dall’amara constatazione che viviamo tempi complessi di trasformazione, e che tutti dovremo adeguarci alle sfide imposte dalla modernità, più o meno green. 
L’idea, o almeno l’ideale, dovrebbe essere una minima variazione dell’Articolo 1 della nostra Carta: «L’Italia è una repubblica democratica, rifondata sul lavoro». Le premesse perché questo accada in un tempo ragionevole non sembrano esserci, almeno per ora. Il sentimento prevalente dei lavoratori, come disse qualche anno fa Susanna Camusso, ex segretario della Cgil, non è la rabbia né la disillusione. È qualcosa di peggio: la solitudine. Se qualcosa è cambiato da quando la Camusso ha lasciato l’incarico (2019), non è certo in meglio. E il Covid c’entra ma non tanto, non troppo.
PS. La fustellatrice che ha ucciso Laila El Harim aveva il blocco di sicurezza disattivato.