La Stampa, 5 agosto 2021
Il romanzo con tre finali di Percival Everett
Percival Everett è uno scrittore eclettico, imprevedibile, autore di provocazioni letterarie apparentemente involontarie, il cui esito però porta ad aprire riflessioni profonde sul significato stesso della scrittura e della lettura, tanto più efficaci in quanto non c’è un’intenzione dichiarata. Come quando scisse un libro apparentemente assurdo, dal titolo paradossale Non sono Sidney Poitier narrato da un uomo di nome Not Sidney Poitier (l’attore protagonista di Indovina chi viene a cena): era un modo per parlare di razzismo senza parlare apertamente di neri. Un giochetto che Everett usa spesso e anche in questo ultimo romanzo Telefono (La Nave di Teseo) dove si scopre a metà che la figlia del protagonista è nera (da cui si deduce che anche i genitori lo sono) solo perché un estremista di destra brandisce una pistola contro di lei. Questa è una delle cifre della sua narrativa, cioè la resistenza alla classificazione automatica come narrativa afroamericana.
Ma la particolarità di questo ultimo libro è una provocazione di tutt’altra natura. Telefono è un romanzo che ne contiene tre. O meglio, esistono tre versioni dello stesso romanzo, che si modificano nel corso della narrazione, come succede appunto nel gioco del «telefono senza fili» che facevamo da bambini. In commercio ci sono tre volumi con lo stesso titolo, la stessa copertina (in verità divergono per alcuni piccoli particolari) e con tre trame leggermente diverse. Il lettore non saprà quindi se sta leggendo la versione A, la B o la C. Potrebbe quindi capitare a due persone che hanno letto due versioni diverse di discutere dello stesso libro che però non è lo stesso libro. Cosa che in verità già accade spesso anche ai lettori che leggono lo stesso libro, perché ciò che uno scrittore crea non viene recepito nella stessa maniera da differenti lettori. Ed ecco la sfida. Se chiedi a Percival Everett come è nata l’idea, risponde: «Mi ha sempre interessato il potere che l’artista ha sulla propria opera. Poi ho spostato la mia attenzione sul potere del lettore. Dopotutto è lì che viene creato il significato dell’opera».
Detta così sembra una trovata letteraria un po’ cervellotica, ma questo libro è Percival Everett all’ennesima potenza e rispecchia perfettamente la sua storia, letteraria e personale. Cresciuto a Columbia, Carolina del Sud, è un uomo dai mille talenti e interessi: ha studiato Wittgenstein e suona chitarra jazz, è un fine conoscitore della filosofia e mitologia greca, ma sa anche castrare un toro e ama pescare salmoni con la mosca. Tra i suoi autori di riferimento cita Eschilo, Euripide, Melville e Mark Twain. Ma dice di leggere soprattutto saggi di matematica, filosofia e logica. Dal 1998 insegna scrittura e teoria letteraria alla University of Southern California, dove è professore emerito. Nel suo laboratorio ripara mandolini e chitarre e nel suo ranch nella Valle del Moreno ha addestrato cavalli e muli. È sposato con la scrittrice Danzy Senna e hanno due figli, di 13 e 11 anni.
«Sono solo un cowboy» si schernisce, ma sa benissimo di essere molto altro. Principalmente uno scrittore indefinibile, che spazia tra i generi (30 libri in 30 anni, da volumi per bambini a romanzi western a raccolte di racconti, poesie e altro) ma che alla fine ha scritto un unico lunghissimo romanzo sulla natura dell’uomo, le fragilità, i pregiudizi, e le storture del mondo.
Percival Everett è un artista puro, che dichiara di aver sempre ignorato l’editoria come business («mi piace essere pagato come chiunque altro, ma non leggo le recensioni e non guardo neppure gli estratti conto degli editori»), amato dagli ammiratori e altrettanto detestato dai denigratori, per definirlo la critica oscilla tra i due estremi di «temuto» e «sottovalutato», mentre tutti concordano sul fatto che sia uno scrittore avant-garde, che scrive libri difficili.
«Il mio editore è intelligente – dice – interessato all’arte più che al denaro. Mi piace il mio editore perché mi lascia da solo a fare l’arte che farò» ed è una stoccata contro gli editor, che a quanto pare detesta. Nella sua carriera manca solo un libro mainstream e alla domanda se un giorno, come esperimento letterario, potrebbe provare a scriverne uno risponde secco: «Con mainstream intendi un libro che richiede poca riflessione per essere consumato? Se è così, allora la mia risposta è no. Non pagherei per guardare atleti lenti e poco allenati giocare a basket. Non pagherei un chirurgo che si accontenta solo delle competenze che ha appreso. Non pagherei un insegnante che crede di sapere già tutto. E non sarò uno scrittore felice solo perché ha lettori a cui piace girare le pagine. Nei libri che non mi piacciono spesso giro pagina per arrivare velocemente all’ultima».
Telefono è stato finalista al Premio Pulitzer, l’editore ha inviato ai giudici una delle versioni, ma lo stesso Everett ammette di «non avere la più pallida idea di quale sia stata premiata». Il libro segue le vicende di Zach Wells, un infelice geologo dell’area di Los Angeles che entra in crisi nel momento in cui scopre che la figlia Sarah è affetta da una malattia incurabile. Il suo improbabile riscatto inizia il giorno in cui trova un biglietto con su scritto «Ayùdame» (aiutami in spagnolo) nella tasca di una giacca comprata su eBay. Decide di indagare, e scopre che la richiesta di aiuto arriva da un gruppo di donne messicane tenute in ostaggio e questo mette in moto l’avvincente finale – o meglio, finali – che coinvolge neonazisti armati, un taciturno detective e una società di poeti insolitamente audaci.
«In verità non è un romanzo con diversi finali. Questi sono tre romanzi diversi – spiega – I finali non sono l’unico modo in cui differiscono». Everett ammette di aver voluto sfidare con questo libro la forma della narrazione classica. «Ma questa non è una lamentela sulla forma del romanzo, mi interessava invece la costruzione del significato di un testo».
Sul fatto di scrivere dell’esperienza di essere nero senza essere un narratore definibile come afro-americano abbiamo già detto, e Everett puntualizza su Black Lives Matters: «È stato un momento fantastico, ma non è certo una novità. È una continuazione della lotta per i diritti civili. Sembra che alla nostra cultura piacciano davvero le cose con i nomi. Il branding spesso toglie la vera gravità alle cose. Alla gente piacciono le etichette».