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 2021  agosto 05 Giovedì calendario

Biografia di Filippo Ganna

Filippo Ganna è il campione moderno di uno sport antico. Ognuno ha i suoi ricordi, dipende dall’età. Il ciclismo su pista è stato Sante Gaiardoni che prepara i due ori di Roma 1960 nel convitto delle suore che ogni sera gli facevano trovare un panino e un fiasco di vino, di nascosto dal commissario tecnico Guido Costa. È stato il surplace di Antonio Maspes nel catino del Vigorelli, e si stava lì ad aspettare che spezzasse quell’immobilità, a pensare perché non parte, e subito dopo quasi per magia lui partiva e vinceva sempre. È stato giovedì 19 gennaio 1984, la sveglia puntata al mattino all’alba, il Centro Deportivo di Città del Messico, Francesco Moser e la sua bici spaziale per battere il record dell’ora, sotto gli occhi di Enzo Bearzot che con la scusa dei Mondiali di calcio del 1986 era volato fin là trascinato dalla passione. 
Fino a qualche anno fa c’erano sempre troppi verbi coniugati al passato, quando si parlava di una disciplina nobile, alla quale negli anni 60 mancò poco per avere un seguito di massa. Il ciclismo su pista è stato per l’Italia il granaio delle medaglie, come la scherma e il tiro a volo in epoca recente. Dal primo oro nel 1920 ad Anversa, fino al 1968, passando per i trionfi di Melbourne 1956, Roma e Tokyo 1964, prima arrivava l’Italia, e dopo gli altri. Nel 1972, i primi Giochi senza medaglia. Subito dopo chiude il velodromo Vigorelli, che stava a questa disciplina come il Maracanà sta al calcio. Per dieci anni non vinceremo nulla, fino a Barcellona 1992 e Atlanta 1996, quando il movimento si lascerà sfuggire un’occasione straordinaria come il primo oro femminile con Antonella Bellutti nell’inseguimento individuale. Non succederà più nulla, o quasi, fino a Rio 2016, quando Elia Viviani, si lascia alle spalle Mark Cavendish nell’omnium, la gara su quattro prove. 
Mancavano gli impianti, mancava la vocazione. La pista, che assegna qualcosa come 30 medaglie olimpiche, era diventata un riflesso condizionato del ciclismo su strada. La carenza gravissima di impianti e la scarsa attenzione per il fratello minore delle grandi corse, aveva svuotato l’attività dei pochi velodromi. Ma è bastata l’apertura del centro federale di Montichiari, che rimane ancora l’unica pista coperta in Italia, a riconnetterci con il passato. Con tutte le difficoltà che può avere una disciplina ancora considerata come un fratello minore. 
Anche Ganna è stato un predestinato riluttante, che si è convinto a tenere uno spiraglio aperto sulla pista grazie alle imprese di Viviani, stradista convertito a curve paraboliche e rettilinei paralleli. «Sei stato tu a farci avvicinare a questa disciplina», gli scrisse dopo l’oro di Rio. Aveva già vinto un Mondiale, il ciclista di Verbania, ma ancora non ci credeva troppo. La prima volta era ancora alle medie, e il suo allenatore gli disse che quel giorno sarebbero andati a correre in pista. «E io pensai, ma cosa sarà mai?». Era una gara, e non se la cavò male. La seconda volta invece fu un disastro. Si ribaltò in curva, trauma cranico, perdita di conoscenza e un paio d’ore della sua vita delle quali non ricorda più niente. Da allora, non si è più fermato, vincendo appunto il titolo iridato a Londra a soli 19 anni, vincendo tutto ma sognando sempre altro, la Parigi-Roubaix o una cronometro al Tour de France. Come fosse un’anima divisa in due. 
Vai più forte di tutti, gli dicevano i suoi allenatori. Sì, ma io non sono mica un pistard, replicava lui con il suo vocione da piemontese di lago. «Ho forza e potenza, però mi manca il colpo d’occhio, non sono un velocista naturale, se mi avessero detto che avrei vinto gare così importanti mi sarei messo a ridere». Ci è voluto del tempo, anche con lui. Ci sono volute tante risate, fino a quella più grande. Ganna ha capito una volta per tutte che questa disciplina non è un intralcio, ma un aiuto per vincere anche altrove. A Montichiari e altrove ci sono tanti ragazzi che sognano di emularlo. E non più solo per quel che fa sulla strada.