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 2021  agosto 05 Giovedì calendario

In morte di Achille Lollo

Da quarantotto anni l’immagine di quel cadavere carbonizzato è una delle icone tragiche della violenza politica in Italia, quando esplodevano le bombe e si uccideva in strada, l’alba dei cosiddetti «anni di piombo». Virgilio Mattei aveva 22 anni e rimase inghiottito nel «rogo di Primavalle», insieme al fratellino Stefano, di 8 anni, entrambi figli del segretario della sezione del Movimento sociale italiano nel popolare quartiere romano. Era la notte del 16 aprile 1973, e la «strage» avrebbe potuto avere conseguenze molto peggiori visto che in quell’appartamento di poche decine di metri quadrati dormivano anche padre, madre e altri quattro figli. 
L’incendio assassino fu appiccato da tre giovani militanti di Potere operaio e ieri se n’è andato l’ultimo colpevole accertato ancora in vita: Achille Lollo, morto a 70 anni d’età nell’ospedale di Bracciano dove tentava di curarsi dalla malattia che l’ha ucciso. Prima di lui la stessa sorte è toccata agli altri due responsabili del rogo: Manlio Grillo e Marino Clavo, morti all’estero dove s’erano rifugiati per sfuggire alla giustizia italiana, e lì rimasti anche dopo la prescrizione della pena. Lollo invece era tornato, dopo aver rilasciato dichiarazioni che avevano riacceso luci e polemiche su quel duplice omicidio per il quale nessuno ha pagato il conto. Solo Lollo, infatti, fu arrestato e scontò due anni di detenzione preventiva, ma quando arrivarono le condanne (non per strage, bensì per incendio doloso e omicidio colposo: 18 anni di carcere per ciascun imputato) erano tutti e tre latitanti fuori dall’Italia. 
Lollo s’era fatto una famiglia in Brasile, dove nel 2005 accolse la notizia della prescrizione. A quel punto decise di parlare, raccontando che sì, loro erano colpevoli perché volevano spaventare il «nemico» missino, ma non avevano intenzione di uccidere né erano riusciti a innescare la bomba incendiaria fabbricata con una tanica di benzina; e che l’azione era stata pianificata con altri tre militanti di Potere operaio. Denunce tardive e poco convincenti, smentite dagli altri complici e dalle persone chiamate in causa, che provocarono una nuova indagine senza via d’uscita e servirono solo a riaprire vecchie ferite. Soprattutto nei familiari superstiti delle vittime. Tra i quali Giampaolo Mattei, che all’epoca aveva 3 anni e ieri ha detto: «È inutile commentare la morte di un assassino. Provo però dispiacere perché si è portato molte verità scomode nella tomba».
A parte eventuali segreti custoditi da Lollo fino alla morte, di verità scomode ne sono comunque emerse molte su quel crimine consumato quattro giorni dopo il «giovedì nero» in cui a Milano una bomba a mano lanciata da un corteo di neofascisti uccise l’agente di polizia Antonio Marino, e al quale seguirono altri delitti che hanno rappresentato l’anticamera del terrorismo rosso e nero. Era il tempo delle stragi fasciste depistate dagli apparati statali e dell’antifascismo militante che avrebbe in parte ingrossato le file delle Brigate rosse e di altri gruppi armati. 
A «indagare» sul rogo, per conto di Potere operaio, fu Valerio Morucci, che di lì a poco sarebbe entrato nelle Br; la responsabilità dei tre emerse subito ma l’intera sinistra, extraparlamentare e non solo, preferì alimentare una campagna fatta di insinuazioni e bugie, secondo la quale la strage era il frutto avvelenato di un regolamento di conti all’interno del Msi. Uscì perfino un libro intitolato Primavalle, incendio a porte chiuse, per accusare investigatori e inquirenti che cercavano i colpevoli dell’«oscuro episodio» tra i compagni anziché nel «vermicaio della sezione fascista del quartiere».
Durante il primo processo a Lollo, Marino e Clavo, il 28 febbraio 1975, a Roma si verificarono violenti scontri tra rossi e neri nei quali venne ucciso a colpi di pistola lo studente greco Mikis Mantakas, aderente all’organizzazione giovanile missina; un omicidio per il quale fu condannato Alvaro Lojacono, che tre anni dopo fece parte del commando brigatista che sterminò la scorta di Aldo Moro e rapì il presidente democristiano. Accanto a Mantakas c’erano altri giovani militanti dell’estrema destra che di lì a poco, anche per vendicare il loro «camerata», fecero il salto nel terrorismo dell’opposta fazione, dando vita ai Nuclei armati rivoluzionari.
Quel rogo rappresentò insomma un crocevia da cui si sono diramate molte strade insanguinate nell’Italia degli anni Settanta, e ora la morte dell’ultimo colpevole sembra consegnarlo definitivamente alla storia.