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 2021  agosto 04 Mercoledì calendario

Montepaschi, dal 2008 bruciati 23,5 miliardi

Il conto preciso del disastro targato Mps si potrà fare solo alla fine, se e quando si chiuderà la trattativa tra l’azionista di riferimento, il Mef, e UniCredit. Solo a quel punto si capiranno i costi veri del salvataggio. Ma già oggi si può prevedere che il costo dell’ultimo decennio abbondante di storia del Montepaschi arrivi a sfiorare i 30 miliardi di euro, tra aumenti di capitale (bruciati) e contributi pubblici iniettati (in emergenza) per non finire a gambe all’aria.
È una storia di speranze andate in fumo, piani di crescita puntualmente disattesi e soldi evaporati (23,5 i miliardi “dissolti” dal 2008), quella che ha segnato gli anni più recenti della banca più antica del mondo. Una storia che si può far partire nella primavera del 2008, quando l’istituto senese, allora guidato da Giuseppe Mussari, decide di lanciare un aumento da 5 miliardi di euro per comprarsi Banca Antonveneta, gruppo bancario prelevato pochi mesi prima (ottobre 2007) da Santander dalle mani di Abn Amro. Il prezzo definito da Mps all’epoca, e che sarà poi oggetto di non poche polemiche negli anni a venire, è definito in 9 miliardi di euro. Una cifra monstre. Ma questo, per Mps, è il prezzo per «diventare da sola la terza banca del Paese», come dichiarato in un verbale di un Cda d’allora. E solo così si possono aggiungere ai 2.100 sportelli senesi dell’epoca i circa 1.000 dell’Antonveneta per raggiungere il 10% della quota di mercato nazionale. Il salto dimensionale, approvato dal Cda all’unanimità, è massiccio anche per una banca di stazza come è in quel momento Mps, che conta 24mila dipendenti, una raccolta diretta intorno ai 100 miliardi di euro e un patrimonio netto di 8,6 miliardi. 
Il guaio è che quelli di Mps si rivelano ben presto sogni di gloria. Per sostenere un costo che si capirà essere troppo salato, oltre all’aumento la banca deve varare un’operazione strutturata (il cosiddetto «Fresh 2008»), un bond subordinato da 2,2 miliardi e deve inoltre indebitarsi con un pool di banche per 2 miliardi di euro. Troppo, considerato anche il fatto che nel frattempo esplode il crack Lehman e i mercati crollano. In breve Montepaschi deve chiedere una prima stampella allo Stato. Arrivano così nel 2009 i primi Tremonti Bond (1,9 miliardi), prestiti subordinati emessi dalla banca e sottoscritti dal Tesoro proprio per puntellare il capitale.
Ma Siena, a quel punto, ha già un piede nel burrone. E non a caso da quel momento scatta la lunga scia di aumenti di capitale arrivati fino ai giorni odierni, ricapitalizzazioni che ciclicamente vengono definite come «definitive» ma che si rincorrono per coprire perdite su crediti che nel frattempo si rivelano inegisibili, perchè erogati con troppa leggerezza. Come ricordato dall’attuale ceo Guido Bastianini nella relazione presentata in Commissione banche lo scorso novembre, la banca ha realizzato la “bellezza” di quattro aumenti di capitale negli ultimi dieci anni per un totale di 18,5 miliardi.
Il primo della serie, nel 2011, è da 2,15 miliardi e serve proprio per rimborsare i Tremonti bond, mentre in controluce si iniziano a vedere gli effetti delle svalutazioni dei Btp, complice la crisi del debito italiano. Nel 2014 si capisce che servono però subito altri 5 miliardi, anche perché ci sono da rimborsare altri 4 miliardi di Monti Bond, a loro volta sottoscritti in precedenza per rimborsare i Tremonti Bond. Non solo. In quell’anno si aggiunge una novità destinata a cambiare in maniera netta il destino di Mps, ovvero l’ingresso sotto la Vigilanza Bce. Che infatti presenta il conto nell’autunno 2014, quando punisce Siena negli stress test condotti con il comprehensive assessment: di nuovo si ricorre a un nuovo aumento da 3 miliardi. 
Ma non basta. Perché è nel 2017 che il falò raggiunge l’altezza maggiore. Gli stress test del 2016 mettono in evidenza una carenza di 8,8 miliardi di euro. Dopo non essere riuscita, nell’estate di quell’anno, a realizzare un rafforzamento patrimoniale a condizioni di mercato, Mps è costretta a chiedere l’accesso alla ricapitalizzazione precauzionale straordinaria. L’intervento dello Stato rende necessaria l’attivazione del principio di condivisione degli oneri. È il definitivo passaggio della banca allo Stato. L’intervento pubblico arriva a 5,4 miliardi, di cui 3,9 miliardi destinati all’aumento e 1,5 miliardi riservati al ristoro degli investitori al dettaglio che detengono i bond subordinati oggetto di conversione in azioni, il cosiddetto burden sharing.
È l’ultimo atto di un film (dell’orrore) che si avvia ai titoli di coda, ma che ancora non è finito. La cessione di Siena a UniCredit, del resto, costerà allo Stato – oggi azionista di riferimento al 64% – un nuovo aumento di capitale chiesto da Bce (stimato in oltre 2,5 miliardi), fondi per esuberi (altri 1,5 miliardi), concessione dei crediti fiscali (le cosiddette Dta) e coperture e garanzie sulle cause legali e sui crediti: il costo preciso, come detto, non è ancora definito, ma le stime parlano di 5-7 miliardi netti. Nella speranza che, una volta in mano a UniCredit, l’emorragia di Mps sia davvero finita.