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 2021  agosto 04 Mercoledì calendario

La passione folle tra Dino Campana e Sibilla Aleramo

“Arrestato a Novara vieni a vedermi Campana”. Il telegramma venne inviato dalla città piemontese a mezzogiorno dell’11 settembre 1917. Ne furono spediti due: uno a un indirizzo di Milano, l’altro alla Pensione Alpi di Cà di Janzo, una frazione di Alagna Valsesia. Il destinatario era il medesimo: la poetessa e narratrice Marta Felicina “Rina” Faccio, nota nel mondo della letteratura come Sibilla Aleramo (Alessandria, 1876-Roma, 1960). Anche il mittente era lo stesso: il poeta Dino Campana (Marradi, 1885-Castel Pulci, 1932). In una testimonianza depositata nel 1950 all’Istituto Antonio Gramsci di Roma, e riportata nel libro di Dino Campana, a cura di Gabriel Cacho Millet, Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, Sibilla racconterà che a Milano, in quel settembre del ’17, “là, all’Hotel Manin, ebbi un telegramma di Campana, da Novara, che mi supplicava di andarlo a visitare alle Carceri di quella città. Sgomenta, mi feci dare dall’avv. Gonzales una lettera di presentazione per il Procuratore del Re di Novara e accorsi. Campana era stato arrestato per vagabondaggio e insufficienza di documenti, ecc. Il suo aspetto l’aveva fatto prendere per un tedesco”. Proseguiva: “Ottenni di rivederlo attraverso le sbarre. Egli singhiozzava, mi chiamava Rina, Rina, mi baciava le mani fra i ferri. Fuggii. Ebbi dal Procuratore la promessa che sarebbe stato liberato. Qualche mese dopo seppi da Cecchi che era tornato in Toscana, e là rinchiuso in manicomio, dove morì 14 anni dopo”.

Fu l’ultima volta in cui Sibilla e l’autore dei Canti orfici si incontrarono. Anche se, come scrive Sebastiano Vassalli nel suo bellissimo libro su Campana, La notte della cometa, “secondo una leggenda fiorita negli anni Settanta, all’epoca della sua beatificazione da parte delle femniniste”, Sibilla “lo andò a visitare, irriconosciuta, fino alla morte nel 1932” di Dino nel manicomio di Castel Pulci, vicino a Firenze. Il loro amore bruciante e violento , fatto “di voluttà e di dolore”, come in un verso di La Chimera, una delle liriche di Dino, durò poco. Era cominciato nell’estate del 1916. “A Firenze, settimane prima – rievocò lei – avevo sentito parlare, forse da Franchi, di uno strano volumetto: Canti orfici, pubblicato in veste meschina a spese dell’autore Dino Campana. L’avevo portato con me in campagna. Lo lessi, ne rimasi abbacinata e incantata insieme, tanto che scrissi al poeta alcune parole d’ammirazione. Egli mi rispose, una bizzarra cartolina. Abitava anche lui in quel momento nel Mugello, nel suo paese nativo”. Vi fu “uno scambio epistolare, dopo di che ci incontrammo a Barco, un gruppetto di case a un valico dell’Appennino Toscano. L’amore divampò, in un delirio selvaggio. Campana era già pazzo, già stato rinchiuso due volte per qualche settimana in manicomio, ma io non volevo crederlo tale, e nei primi tempi, per tutto il mese anzi che passai con lui lassù, in una località detta Casetta di Tiara, egli fu, pur in mezzo a mille stravaganze, molto tranquillo, dolcissimo innamorato come un bimbo. Diceva di non esser più capace di scrivere, ma non pareva soffrirne. Progettava, per l’inverno, di impiegarsi, di lavorare, di vivere con me e per me. Eravamo felici. Scrissi Fauno. Ma appena sceso a Firenze, a settembre, incominciarono a manifestarsi segni gravi di squilibrio. Tutto il mio passato lo ingelosiva atrocemente”. Era un passato di molteplici passioni amorose. “L’elenco degli ex amanti d Sibilla – narra Vassalli – comprende già quasi tutta la letteratura italiana vivente, buona parte delle arti figurative, qualche rappresentante del teatro e un numero imprecisato di aviatori, cavallerizzi, rivoluzionari e banchieri”. Tra di loro quegli scrittori e quei critici, tra tutti Giovanni Papini, che non avrebbero mai compreso il genio di Campana, poeta puro, uomo dalle suole di vento come Arthur Rimbaud. Si conobbero, si amarono, esplose la follia, baci e botte. “Egli giungeva, ripartiva – ricorderà Sibilla – scriveva pentito, implorava perdono e amore. Giunsi ad un tale stato d’esaurimento e di panico, pur col cuore gonfio di pietà e di passione, che mi rifugiai, senza dargli l’indirizzo, presso un’altra amica mia ch’egli non conosceva. Gli scrissi supplicandolo di eseguire il progetto di recarsi in montagna, un luogo delle Alpi piemontesi ov’era già stato, mi pare, e là cercar di ritrovare salute e calma”. Così “finalmente fece, e io tornai alla stanza sull’Arno, ma ero disfatta da quei brevi eterni mesi di martirio. Passai tutto l’inverno così, squallidamente, attendendo le rade lettere di Dino, aggrappandomi alla speranza d’una guarigione che nel fondo di me stessa sapevo impossibile ormai”. Finì in quel settembre del 1917: Dino arrestato per vagabondaggio, Sibilla che lo fa liberare. Poi il silenzio di lei, le missive disperate di lui. Come quando le scrisse: “Ho sofferto in modo inumano. Voglio vedere Sibilla” (la lettera inedita è stata ora pubblicata nella splendida edizione dei Canti orfici dell’editore Tallone). Fino al manicomio, dove fu rinchiuso per sempre: “Manicomio di S. Salvi, Firenze, 17 gennaio 1918. Cara, se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia vita. Vieni a vedermi, ti prego tuo Dino”.