Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  agosto 04 Mercoledì calendario

Il rituale della caccia al pesce spada

«E pigliaru la fimminedda / Drittu drittu ’n tra lu cori / E chiangia di duluri / E la varca la strascinava /E lu sangu ci curriva / E lu masculu chiangiva» cantava Domenico Modugno: «Chist’è ’na storia / D’un pisci spada / Storia d’amuri...». La storia d’amore è quella di una coppia di pesci spada (la cosiddetta parigghia) unita fino alla morte.
Salendo a bordo di un’antica feluca, la tipica imbarcazione costruita per la caccia al pesce spada, non si sente la voce suadente di Modugno ma quella della ciurma di bordo. «Una vera famiglia» precisano i pescatori all’alba di uno dei tanti giorni d’estate in cui si va per mare rivivendo questo rituale.
Nello scenario dello Stretto di Messina, da secoli, da maggio a fine agosto il duello con il mare si ripete, tra l’abile fiocinatore e il grande pesce. Una caccia più che una pesca. Un mestiere che si tramanda di generazione in generazione.
«È un’eredità pesante ma unica – spiega Antonino Giannone -. Caccio da cinquant’anni, da quando mio padre cominciò a portarmi con lui. Era il 1964». Giannone è proprietario della feluca Felicia II, nome della madre che avrebbe preferito morire piuttosto che vedere la tradizione famigliare della pesca interrompersi. E così Antonino, classe ’56, ha continuato nonostante la dura vita che richiede. Conosciuto come Nino, è il classico uomo di mare con la pellaccia dura ma quando naviga tra i ricordi sorride teneramente.
In mare
«Va susu (verso nord), va iusu (verso Messina a sud), fora! ntera!», si diceva una volta per orientarsi nelle acque, e il linguaggio a bordo non è cambiato poi tanto. Quei tre chilometri di mare che separano Sicilia e Calabria, dal porto di Messina a Torre Faro sulla punta dell’isola, incontro dei mari Ionio e Tirreno, l’uno freddo e irrequieto, l’altro più mite, nel periodo estivo sono battuti dalle feluche; ognuna entro i limiti delle proprie “poste”, il tratto di mare che tramite sorteggio viene assegnato alle 14 barche (10 siciliane e 4 calabresi). La regola vuole che se il pesce viene preso in un’altra posta il bottino vada diviso.
Le feluche sono imbarcazioni di origine greca: hanno un aspetto allungato e sono zavorrate per sostenere un albero di 25 metri e una passerella di 30 a prua. Il primo è utilizzato dagli ntinneri, coloro che, posizionati sulla cima della lunga antenna, fanno da vedetta e seguono i movimenti del pesce spada dirigendo le operazioni di avvicinamento (timone e comandi sono posti lassù). Una volta avvistato il pesce, danno le indicazioni al resto dell’equipaggio gridando dall’alto.
È in questo momento che, improvvisamente, il fureri (fiocinatore che quasi sempre è anche il padrone della barca) con un guizzo corre verso la punta della passerella con l’equilibrio di un funambolo e la leggiadria di una danzatrice. In men che non si dica raggiunge l’estremità della feluca dove il pesce spada non può rendersi conto della sua presenza e di quella della feluca: prende la mira e colpisce a morte.
«Senza l’esperienza nulla avverrebbe: è importante saper condurre la feluca ma anche indirizzare il pesce davanti alla passerella. E soprattutto sapersi avvicinare», spiega Nino. E precisa: «Prima di andare sulla passerella bisogna passare vent’anni sull’antenna». Se il colpo è andato bene a segno (bisogna mirare la parte composta da più carne dalla pinna dorsale fino a metà corpo) non è necessario molto tempo prima che il pesce venga recuperato a bordo, a meno che non superi il quintale di peso (può arrivare fino a tre).
Una volta a bordo c’è chi ringrazia in silenzio il proprio santo, chi bacia il pesce spada, chi si commuove, ma ciò che mai manca è forse il più misterioso dei riti, la cardata da cruci, l’incisione con le unghie sulla guancia destra del pesce, in modo da lasciare un segno di croce multiplo: un segno di prosperità o di riconoscenza nei confronti del pesce per il suo valore di combattente. «È un rito che risale a secoli fa, forse addirittura agli arabi che pescavano, un segno di lotta e di vittoria sul pesce, una vera e propria guerra, soprattutto una volta quando non c’erano i motori ma i remi da usare per inseguire la preda, e gli ntinneri erano vedette umane appostate sui promontori di Bagnara e Palmi in Calabria», dice Nino. Un rito cruento ma antico.
A terra
La comunità locale si sta impegnando affinché la caccia al pesce spada riacquisti il valore che merita e venga promossa come esperienza da poter vivere, non solo da strutture come il Belmond Grand Hotel Timeo, che organizza l’attività su richiesta, ma anche e soprattutto da chi ne è discendente diretto come le sorelle Mancuso, con Antonella presidente dell’Associazione pescatori feluche dello Stretto e nipote di due nonni pescatori: «Un tempo c’era ammirazione per loro e noi stiamo lavorando affinché la considerazione torni quella. Ci stiamo anche muovendo per studiarli con i biologi marini, per invitare a una pesca consapevole (vanno presi solo gli esemplari di dimensione minima di un metro dall’inizio della spada al centro della coda) e per far conoscere questo rito ai turisti – spiega Mancuso -. Quando ero piccola la domanda ricorrente era se il pesce spada vivesse qui o no? No, ma passa dallo Stretto 4-5 volte l’anno» racconta entusiasta la figlia d’arte, che sta lavorando alla costruzione di una nuova feluca per tornare in mare con la sorella Giusy.
Tra le pratiche di consumo consapevoli rientra anche il prezzo: le “primizie” di maggio possono arrivare a 14 euro al chilo mentre normalmente siamo sui 10 euro. Ciò che non cambia è invece l’impiego in cucina: con le braciole di pesce spada si vince sempre ma per i veri cultori c’è la scuzzetta, la parte più prelibata perché ricca di grasso, tra la guancia e la pinna dorsale, che una volta veniva regalata a chi si voleva ringraziare; speciale arrosto, ghiotta con il sugo di pomodoro a cui poi aggiungere gli spaghetti.