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 2021  agosto 04 Mercoledì calendario

Tutti i canti che fecero l’Italia

Abbiamo ascoltato i gagliardi calciatori della nazionale cantare a squarciagola l’inno nazionale, durante i recenti campionati europei. Intonazione e tempi approssimativi, evidente mancanza d’una educazione corale eppure, anche così maltrattato, bello e trascinante Fratelli d’Italia — dispiace che un partito politico se ne sia appropriato per fini di parte. Quando il genovese Goffredo Mameli scrisse quei versetti aveva appena compiuto vent’anni (1827-1849). Venne a Roma per difendere con molti altri giovani volontari la Repubblica romana retta dal triumvirato Mazzini, Armellini, Saffi. Luigi Napoleone aveva bisogno del sostegno cattolico e mandato le sue truppe per abbatterla e rimettere Pio IX sul trono. Nei combattimenti, Mameli ebbe una palla nella gamba, la ferita suppurò, subentrò la cancrena e a 22 anni morì. I gagliardi calciatori della nazionale erano quasi tutti più vecchi di lui quando ne cantavano i versetti così antiquati, così presaghi: «Noi fummo per secoli calpesti e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi». Mameli descriveva la realtà d’allora che, in buona parte, è anche quella di oggi. «Siam pronti alla morte l’Italia chiamò», non era retorica patriottarda tanto per dire, era la sorte che il giovanissimo poeta stava per affrontare sugli spalti del Gianicolo.
Ci sono canti che hanno fatto l’Italia, quanto meno che ne hanno accompagnato, commentato, in qualche caso anticipato, la storia. Venerdì sera a Roma (Cavea dell’Auditorium, ore 21), questi canti ancora una volta si leveranno: orchestra, coro e voci bianche di Santa Cecilia, direzione del maestro Carlo Rizzari. Concerto di contenuto praticamente unico che era già stato eseguito nel 2011, in occasione dei 150 anni dell’Unità. Ma se volessimo ripescare tutti i precedenti dovremmo anche aggiungere che la prima idea risale addirittura al centenario del 1961 quando vennero diffusi due Lp di straordinaria qualità con orchestra e coro della Rca diretti da Franco Ferrara, voci di altissimo livello: Mario Del Monaco, Giulio Fioravanti, Nicola Rossi Lemeni, Angelica Tuccari, Virginia Zeani – trascrizioni curate da Raffaele Gervasio.
Dunque, venerdì quelle note torneranno a levarsi in un momento storico ambiguo come quello che stiamo vivendo. Da una parte una pandemia che ha provocato molte vittime ed enormi danni, dall’altra segnali di ripresa e voglia d’innovazione teoricamente in grado di dare nuovo slancio alla nostra convivenza — se le circostanze lo permetteranno, se un numero sufficiente d’italiani ne sarà capace, se non prevarrà l’egoismo di molti partiti. In ogni caso, ricordare – e ricordare col canto – attraverso quale travagliato cammino siamo arrivati al XXI secolo una sua utilità potrebbe averla. La speranza aiuta, ma assai di più aiuta la fiducia, l’utilità di riascoltare quei canti potrebbe essere proprio quella: suscitare fiducia. Il presente è difficile ma molte fasi del passato da cui veniamo lo sono state anche di più – dunque... Prima del ’48, i tentativi di dare forma politica unitaria ad un’Italia rimasta fino a quel momento più che altro un ideale letterario, non avevano canti che li accompagnassero. Si lavorava nel segreto, nelle associazioni clandestine come poi avverrà nella Resistenza. Le formule associative sapevano di sacrificio e di congiura: «Quali sono i tuoi diritti per entrare nella confraternita degli Uomini Liberi?» – «Io non ne ho alcuno, eccetto l’amore della Patria e il fermo proposito di contribuire alla sua liberazione o morire nella prova».
La retorica politica ottocentesca, buona parte della letteratura, soprattutto i libretti d’opera, si nutrivano di formule altisonanti se è vero che nemmeno uno dei massimi poeti europei di quel secolo, Giacomo Leopardi, riuscì a sottrarvisi: «L’armi qua l’armi, io solo combatterò, procomberò sol io».
A quella retorica partecipa anche l’inno di Garibaldi (tra quelli che saranno eseguiti) con quell’attacco di lugubre romanticismo: «Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti». Chi oserebbe oggi scrivere, mettere in musica, versetti del genere? Questa però era l’aria del tempo e non solo in Italia, come si può facilmente constatare andando a leggere le parole degli inni nati in quel secolo, di qua e di là dell’Atlantico. L’inno di Garibaldi è del 1858, nel giro di tre anni tutto si compì: la seconda guerra d’indipendenza, la spedizione dei Mille, la proclamazione del Regno d’Italia – 17 marzo 1861. Cavour, che ne era stato il principale artefice, fece appena in tempo a viverla – il 6 giugno, poco più che cinquantenne, moriva.
La parte più consistente di canti nasce negli anni della Grande Guerra (1915-’18), conferma sonora della vasta partecipazione emotiva a un conflitto che completava l’unità del paese ed era combattuto da italiani di ogni regione da nord a sud. A dimostrazione del contrario c’è la quasi totale mancanza di canti per l’altra grande guerra (1940-’43). In quegli anni circolavano per lo più le canzoni volute dal regime: Orticello di Guerra, Inno dei sommergibilisti, Vincere e vinceremo. Le più sentite e ascoltate erano però la tedesca Lili Marleen (indimenticabile l’interpretazione di Marlene Dietrich) e l’italianaTornerai, testo di Nino Rastelli, musica Dino Olivieri, uno slow fox che ebbe immensa fortuna, tradotto e cantato in molte lingue, elegante e nostalgico, che cita perfino il coro a bocca chiusa dalla Madama Butterfly.
Poi ci fu la Resistenza (1943-’45), arrivò Bella ciao, un’aria piena di baldanza cantata, in italiano, ovunque nel mondo anche se Giorgio Bocca, partigiano combattente, ha scritto di non averla mai ascoltata negli anni della dura guerra di montagna. Eppure, degli anni da cui è nata l’Italia democratica Bella ciaoè diventata comunque il simbolo sonoro.