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 2021  agosto 04 Mercoledì calendario

In morte di Antonio Pennacchi

Francesco Musolino, Il Messaggero
Ieri sera, nella sua casa di Latina, è morto a 71 anni lo scrittore Antonio Pennacchi. Vincitore del Premio Strega nel 2010 con Canale Mussolini, fu protagonista di una vita avventurosa, una passione politica che trovò compimento nella produzione narrativa, a partire da Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi, narrando la sua particolare parabola autobiografica. Romanzo controverso, avanguardista nel linguaggio e amatissimo dal pubblico, dal quale è stato tratto nel 2007 il film Mio fratello è figlio unico, diretto da Daniele Luchetti. 
Diciamolo chiaramente, Pennacchi non era uno come tanti. Non smise mai di combattere e battersi per l’eguaglianza e per i diritti sociali, lottando contro le ingiustizie, usando le parole, alzando la voce, burbero nei modi ma sempre sincero, lontanissimo da qualsivoglia logica di salotto editoriale. Con il suo berretto, il sorriso franco e la voce roca, sino all’ultimo è rimasto fedele a ciò in cui credeva e di ciò dobbiamo rendergli merito.
Operaio dell’Alcatel Cavi per oltre trent’anni, Pennacchi si è dedicato alla politica prima nelle file del MSI e poi in quelle del Partito marxista-leninista Italiano. Tra gli anni 70 e 80 ha aderito al PSI, alla CGIL e poi alla UIL. Nel 1983, durante un periodo di cassa integrazione, si è laureato in Lettere e Filosofia all’Università della Sapienza di Roma per poi dedicarsi alla carriera di scrittore. Il debutto nel 1995 con Mammut, seguito da Palude. Storia d’amore, di spettri e di trapianti. E finalmente, nel 2010, arrivarono i meritati riconoscimenti e la notorietà con la pubblicazione di Canale Mussolini, finalista al Premio Campiello e vincitore dello Strega al Ninfeo di Villa Giulia, ripercorrendo da par suo la storia di una famiglia contadina, i Peruzzi, sradicata dalla sua terra d’origine nella bassa padana per andare nell’agro pontino, capeggiata dal carismatico e coraggioso zio Pericle. Nella sua ultima intervista all’Ansa, profeticamente, disse: «A 70 anni ho perduto l’innocenza, ma anche gli entusiasmi e le speranze. Il miglior tempo mio se n’è andato. Mi restano gli anni della discesa e della riflessione».
Palpabile lo sconcerto del mondo letterario, espresso dal Ministro della Cultura, Dario Franceschini ad Adnkronos: «Antonio Pennacchi è stato il primo, grande narratore di un’Italia che fino ai nostri giorni era stata dimenticata. Con i suoi saggi sulle città di Fondazione, Pennacchi ha raccontato l’epopea della bonifica pontina, facendo conoscere al grande pubblico con arguzia, intelligenza, sagacia e ironia vicende dolorose e dilanianti. Un creativo a tutto tondo, ci mancherà». Si unisce al cordoglio anche il premio Strega, Nicola Lagioia: «Pennacchi era un uomo generoso, capace di entrare subito in contatto, con un affetto anche ruvido, immediato ma sempre genuino nei modi e nelle parole. Con lui scompare un pezzo di cultura italiana afferma il direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino per lui la letteratura e la storia viva del paese, erano la stessa cosa. Pennacchi ha avuto una vocazione, fare il contropelo alla storia dell’Italia, ecco perché ci mancherà». 
Uomo dal carattere fiero, intellettuale inquieto, ha firmato poi Storia di Karel (2013), Camerata Neandertal. Libri, fantasmi e funerali vari (2014), Canale Mussolini. Parte seconda (2015), Il delitto di Agora (2018) sino a La strada del mare (2020). Con il suo ultimo romanzo avrebbe voluto provare a rivincere lo Strega, ed Emanuele Trevi ha detto: «L’ho conosciuto quando uscì Mammut e in quell’occasione nacque un’amicizia. Avrei voluto che avesse concorso anche all’ultima edizione dello Strega anche per fare due chiacchiere. Gli volevo molto bene».
Mentre la notizia della scomparsa corre sul web, si moltiplicano le espressioni di cordoglio dei lettori e dei colleghi, sinceramente affranti, e fra questi lo scrittore Giordano Meacci: «Sono molto addolorato ma so per certo che ne continuerò a parlare al presente perché Pennacchi deve essere celebrato per la sua capacità affabulatoria e la sua forza espressiva. L’ho incontrato l’ultima volta appena un mese a Pescara, ciò che gli dovremo per sempre è la sua capacità di aver saputo creare un dialogo con i suoi antenati, con i suoi morti, creando una lingua tutta sua ma aperta al futuro». Questa notizia dolorosa, a pochi giorni dalla scomparsa di Roberto Calasso, ci fa davvero respirare la fine di un’epoca, la conclusione di un meraviglioso frangente culturale che oggi ci lascia tutti orfani, lettori e non.

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Ida Bozzi, Corriere della Sera
Interprete di un territorio, l’Agro Pontino delle bonifiche mussoliniane, e di una temperie sociale e politica, quella dell’Italia del Novecento (del Ventennio e del dopoguerra), si è spento improvvisamente dopo un malore, nella sua casa di Latina, lo scrittore Antonio Pennacchi, 71 anni (era nato nel 1950 a Latina), premio Strega nel 2010 con il romanzo Canale Mussolini (Mondadori) e autore de Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi (Mondadori, 2003) che nel 2007 era diventato film con il titolo Mio fratello è figlio unico, per la regia di Daniele Luchetti.
Lo stesso scrittore aveva rivelato di aver avuto un infarto nel 1996, e lo aveva scritto con leggerezza, quasi con ironia sul «Corriere della Sera» il 29 agosto 2011. Aveva scritto Palude (Donzelli, 1995) , storia di un uomo soprannominato appunto Palude, sottoposto a un trapianto di cuore: «E poi m’è successo a me — aveva confessato sul quotidiano — neanche un anno dopo avere scritto il romanzo ho fatto un infarto anch’io».
Alla letteratura era approdato tardi, nel 1994, con il romanzo Mammut (pubblicato da Donzelli), dopo una lunga stagione di contrastanti passioni politiche, prima nel Msi e poi tra i maoisti, poi nel Psi e nel Pci, durante gli anni di lavoro come operaio in fabbrica dopo l’università.
Ma anche l’esordio letterario è tempestoso come le sue passioni, e la storia dell’operaio Benassi protagonista del libro, e delle sue battaglie e sconfitte — una fiction autobiografica, che rievoca l’esperienza dello stesso Pennacchi come operaio alla Fulgorcavi e le sue vicissitudini di sindacalista della Cgil —, viene rifiutata da 33 editori prima di approdare alla pubblicazione. Il modo in cui è nato quel libro spiega tanto dello stile realistico (ma si cimenterà anche con il romanzo di fantascienza, Storia di Karel, edito da Bompiani nel 2013), sanguigno e profondamente doloroso di Pennacchi, che cominciò a scrivere le pagine di Mammut a penna, su qualche foglio di carta, dopo il lavoro in fabbrica («Facevo di notte. Sempre di notte», raccontava lo scrittore), e attese ben otto anni prima di vederlo finalmente pubblicato.
La rabbia e la passione di Pennacchi si stempereranno in epopea, prima, e in ironia, poi, senza perdere però la loro fondamentale connotazione sanguigna, di chi quella vita l’ha vissuta e soprattutto l’ha vista vivere intorno a sé: Pennacchi racconta quella particolare «provincia», italiana e laziale, nell’area di Latina e dell’Agro Pontino, quel territorio che vive sentendo la capitale vicina eppure lontanissima, una terra che sembrava promessa e forse non lo è, con le sue folle e i suoi protagonisti rabbiosi, o sofferenti, o marginali, o vagabondi, alla ricerca di sé stessi e della verità in direzioni anche contraddittorie.
Così è Accio, protagonista de Il fasciocomunista: un autoritratto dell’autore, oltre al rispecchiamento di una generazione, un viaggio tra ribellione e ideologie, delusioni e senso di insufficienza, e il racconto ispirato alla sua esperienza, tra la certezza delle idee politiche e l’incertezza della gioventù (e viceversa). Diventò un film di grande eco, diretto da Luchetti e interpretato da Elio Germano nei panni del protagonista, con Riccardo Scamarcio e Luca Zingaretti.
Fu questo romanzo, e anche Canale Mussolini, con la vittoria allo Strega, a far conoscere Pennacchi a un pubblico di lettori più ampio: ma con Canale Mussolini più ampio è lo sguardo che Pennacchi rivolge alla gente e alla terra. Cambia il respiro, anche lo stile è meno frammentario e rapido o rabbioso (la rabbia si è trasferita nelle cose, nei fatti) il panorama si allarga, è più vasto, anche dal punto di vista storico: abbraccia la storia dell’Italia operaia e contadina dagli anni Dieci del Novecento fino al secondo conflitto mondiale.
Ed è una storia che forse davvero riesce a rintracciare le origini dei dolori, delle sofferenze e delle grandi passioni dei protagonisti, oltre che a raccontare il Paese: anche perché coincide con la vicenda vera delle famiglie di mezzadri, «trasferite» dalla bassa Padana, tra Veneto, Emilia e Lombardia, fino alle terre nuove intorno al Canale Mussolini, le terre laziali delle bonifiche del Ventennio. Così è attirata laggiù anche la famiglia Peruzzi, verso il miraggio di una terra fertile: le promesse però si sbriciolano contro la durezza della vita nei territori nuovi, dove l’odio degli autoctoni per gli emigranti è violento, e i campi sono infestati dalle zanzare: arriveranno gli americani, con il Ddt, a reinstallare i Peruzzi nei loro campi per un’altra stagione di fatiche.
Ecco: l’Italia della fatica e del lavoro, che può sperare (anche se ancora non lo vede) in un futuro migliore. L’idea che espresse lo stesso Pennacchi nella lettera scritta a Giorgia Meloni, chiedendole di sostenere il governo Draghi: «Dopo la Seconda guerra mondiale e quella di Liberazione, le forze socialcomuniste e cattoliche — da sempre acremente divise — seppero trovare quel minimo di concordia necessario a costruire assieme l’unità del popolo, una Costituzione democratica repubblicana». Quella concordia, continuava, «che portò l’Italia ad essere, dal Paese povero e sottosviluppato che era prima, la quinta o sesta potenza economica mondiale».

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Paolo Di Paolo, la Repubblica
Quando si dice che un’opera, un’opera artistica, letteraria, somiglia all’autore, si esagera sempre un po’: per eccesso o per difetto. Nel caso di Antonio Pennacchi, scomparso ieri a 71 anni dopo un malore che lo ha colpito nella sua casa di Latina, c’è invece una corrispondenza piuttosto marcata tra gli umori, la temperatura emotiva dei romanzi e il suo modo di essere: un narratore dentro lo spazio della scrittura e fuori, con le stesse accensioni, lo stesso tono di voce. Che si alza all’improvviso e poi si abbassa di colpo, per sussurrare, quasi borbottare, bofonchiare, e poi tornare su, in un movimento spezzato, vorticoso.
Intemperante Pennacchi; insofferente a ogni briglia, combattivo, pressato dall’urgenza di chi si sente investito da un compito anche per conto terzi: il largo, generoso atto di restituzione che la letteratura può essere per chi non ha avuto, non ha forza e spazio per raccontare. È su questo che ha fondato il suo narrare: sull’impeto di chi sente una mancanza e vuole colmarla, sulla necessità di una storia, se non alternativa, complementare.
L’epopea dell’Agro Pontino, che ha il suo vertice in Canale Mussolini , premio Strega nel 2010, trae la sua forza non solo da una prospettiva familiare, genealogica, ma anche dalla volontà di dire il troppo poco detto, il troppo poco raccontato. Né prudenza “ideologica” né rispetto di letture dominanti l’hanno condizionato: «Lei dice che la libertà in Italia l’avrebbe levata il fascismo? Ma in Italia non c’è mai stata la libertà, che t’ha potuto levare il fascismo? », si legge in una pagina di Canale Mussolini . «Ai signori gliel’avrà levata, ma i poveracci non ce l’avevano mai avuta».
Il fasciocomunista Pennacchi, per riprendere il titolo del suo romanzo autobiografico del 2003, aveva già per tempo superato blindature, vissuto complesse “conversioni”. Fratello, letteralmente fratello, però molto anomalo, di militanti di sinistra, si iscrive al Msi e ne viene espulso; in divisa di operaio dell’Alcatel di Latina, trova la via del marxismo maoista. Socialista infine, vive la turbolenza politica tra gli anni Settanta e gli Ottanta dal fronte sindacale, anche lì provocando o subendo attriti, baruffe, espulsioni. In un’intervista si definì, usando le parole di sua madre, «catabrighe»: «Non un attaccabrighe. Catare, in veneto, significa trovare. Io uscivo e trovavo le brighe».
Ci mette la stessa ostinazione nel trovare uno spazio suo, lo spazio Pennacchi, anche nei territori della letteratura: dopo decine e decine di rifiuti, il primo romanzo, Mammut , approda a Donzelli nel 1994. Un suo alter ego in tuta blu, caparbio quanto l’originale, anima incandescenti lotte sindacali, finché il disincanto non compromette un po’ il suo impeto. Tiene il filo — un filo d’acciaio — con l’antica letteratura operaia, e la rinnova, la rimodella, la innerva dei suoi umori biliari e delle sue idiosincrasie.
Una specie di ininterrotta “litigata” in forma narrativa: perché Pennacchi e le sue estensioni letterarie si innervosiscono, si indignano di continuo. L’Accio Benassi del Fasciocomunista litiga perfino con Pasolini che gli dà un passaggio in macchina; e il vero Pennacchi si irrita guardando la resa filmica del libro, firmata da Daniele Luchetti, Mio fratello è figlio unico .
Ma dietro l’animosità c’è sempre un tratto come di pietà e di commozione, le lacrime trattenute a lungo di chi «sente le voci » e deve farsene tramite. Canale Pennacchi, si potrebbe dire: da cui passano le storie e le istanze degli avi, dei morti, «morti di famiglia, morti mai conosciuti», dei semi-vivi, dei vivi umiliati.
«Già quando sono nato ero di umore rovescio», ha detto in una delle ultime interviste. Raccontandosi come marxista (uno dei pochi ancora in circolazione) “dolorante” e crociano in fatto di estetica: disinvolto al punto di avventurarsi nel genere distopico, senza però accettare l’etichetta, e ossessivamente votato — avrebbe detto lui condannato — al grande racconto familiare, di cui continuava a indagare grandezze, ombre.
Nello specifico, quella famiglia di mezzadri per tre generazioni, i Peruzzi, e quelle trentamila persone che, «con le povere masserizie, le bestie, vecchi e bambini, si spostarono dal Veneto povero e angariato dagli agrari al centro sud, per una volta visto come un paradiso promesso». Quando finirà?, gli chiedeva qualche settimana fa l’intervistatore di Rolling Stone .
Risposta: «Finirà quando me ne andrò». E aggiungeva che scrivere non era mai stato un piacere, sempre e solo un dovere. A uno che diceva di essere venuto al mondo per scrivere Canale Mussolini non si fatica a credere.
E anche ad averlo vicino, sentivi il vibrare dell’animo esigente. Gli occhialetti tondi, il baschetto, la sciarpa immancabilmente rossa sulla giacca, il bastone, un sorriso tagliente e insieme bonario sotto i baffi. E Pennacchi sotto i baffi rideva, qualche volta ghignava, tradiva sempre e comunque qualche emozione, e parecchia inquietudine da “animale politico” che non teme la burrasca, l’affronta a testa alta, la vuole generare. Anche quando si trattava di prendere di petto il bullo Renzi o il bullo Salvini («Vai a scuola, studia!»), e finire per ritrovarsi solo, isolato, senza partito. L’aria di chi è sicuro, e lancia giudizi apodittici, ma non lo è fino in fondo, perché sa — sotto i baffi — che niente è assoluto, niente. Tanto meno le convinzioni, le idee. «Il dramma della condizione umana è proprio questo: sei quasi perennemente condannato a vivere nel torto, pensando peraltro d’avere pure ragione » .