Corriere della Sera, 3 agosto 2021
Biografia di Gianmarco Tamberi
Marco Tamberi è quasi nascosto dietro la balaustra della tribuna. Dal megafono risuona l’inno di Mameli. Suo figlio si è appena scambiato la medaglia d’oro con l’amico Barshim. Ognuno l’ha messa al collo dell’altro, invece di prenderla dal vassoio come impongono le regole del Covid, perché entrambi volevano che fosse una premiazione vera. «Come ci si sente ad allenare un campione olimpico?» Lui risponde quasi sopra pensiero, tenendo lo sguardo fisso su Gianmarco, ma bene attento a non farsi notare. «Non lo so, fino a ora non mi era mai capitato di farlo. E in futuro, chissà se mi succederà».
Anche quella del nostro primo trionfo nel salto in alto è una storia di padri e di figli. E come tale, non è priva di dolore, di asperità, di incomprensioni. Quando i suoi genitori si separano, Gianmarco rimane a vivere con Marco, che fin da quando aveva 9 anni è il suo allenatore. Anche sua madre Sabrina era una saltatrice, anche lei era allenata da suo marito. «Mio fratello Gianluca invece si trasferì a Roma da mamma. Lui è sempre stato uno dei mie più grandi stimoli, perché volevo uguagliarlo e batterlo. Era primatista italiano nel lancio del giavellotto, ma poi ebbe grossi problemi con il suo allenatore. Che anche in quel caso era nostro padre».
Nel 1984 Marco Tamberi aveva 27 anni. Alle Olimpiadi di Mosca era stato finalista di salto in alto. Era campione italiano, aveva appena ritoccato il record indoor che già gli apparteneva. Mentre si allenava, venne investito da un camion che gli spezzò il tendine d’Achille. Per Gianluca, era persino andato in Finlandia a studiare i maestri del giavellotto. Ma con il figlio più piccolo fu subito diverso. Anche se Gimbo preferiva il basket, che ancora oggi adora. «Non gli feci alcuna pressione. Gli dissi solo che al massimo avrebbe giocato nelle serie minori. Nel salto in alto invece, gli bastavano due allenamenti per gareggiare con i migliori d’Italia. Diciamo che lo aiutai a scegliere».
Lo sport è lastricato di padri che proiettano sui propri figli i loro sogni non realizzati. «Forse è stato davvero così, e solo ora mi rendo conto di quanto anch’io desideravo questo oro» racconta Marco. «Io ho un carattere molto impositivo, lui non è affatto arrendevole». Nella casa di Ancona, fino al 2012 restano solo padre e figlio. «Ero costretto a vederlo sempre» dice Gimbo. «A colazione, a pranzo, a cena, agli allenamenti». Nel 2012 c’è una fuga da fermo. Gianmarco non fa vita da atleta, beve e torna tardi la sera, non si presenta al campo lasciando Marco ad aspettarlo per ore. «Bisognava cambiare qualcosa. Andai a vivere da solo, contro la sua volontà». Quattro mesi dopo, fa il record italiano.
Sembra un eterno ragazzo, ma la vita non ha fatto sconti al primo campione olimpionico nella storia del salto in alto italiano. Non solo per l’infortunio che nel 2016 gli negò i Giochi di Rio de Janeiro. Le ferite più profonde non sono quelle del corpo. Dallo scorso gennaio fino a quindici giorni fa, padre e figlio hanno vissuto il momento più basso del loro rapporto personale. Marco stava ritrovando un atleta, e stava perdendo un figlio. «C’eravamo quasi, alla nostra meta. Io lo spingevo tanto, ma andare d’accordo diventava sempre più difficile, troppa tensione, troppi insulti tra noi. Mi sono reso conto di avere quasi superato il limite oltre al quale potevamo andare».
La medaglia d’oro di Tokyo è per loro al tempo stesso un punto di arrivo e di non ritorno. Gimbo parla del futuro, suo e della fidanzata Chiara, del prossimo matrimonio. Al gesso che lo ha imprigionato per oltre sei mesi, ci appenderà la medaglia d’oro. «In questi giorni ho capito molte cose di me, come atleta e come uomo. Finalmente mi sento bene, come se mi fossi liberato da un peso». Quando gli si chiede di suo padre, lo sguardo si fa serio. «Abbiamo raggiunto insieme questo oro olimpico. Anche se abbiamo difficoltà a godere insieme di questi momenti, gliene sarò sempre grato. Dobbiamo parlare, e poi decideremo cosa fare».
Marco dice invece quello che Gimbo forse non riesce ancora ad esprimere. «Non so cosa faremo, ma dobbiamo darci una tregua, l’uno dall’altro. Abbiamo passato insieme tanto tempo, forse troppo. Se continuare a lavorare insieme significa minare il mio rapporto con lui, non voglio farlo». Ieri, a tarda sera, li abbiamo visti seduti insieme a un tavolo del ristorante di Casa Italia. Stavano parlando. Marco teneva in mano un calice di vino. Gimbo sorrideva. Forse questa vittoria significa anche la fine di una ossessione reciproca. E l’inizio di una storia nuova e più semplice, tra un padre e un figlio.