Corriere della Sera, 3 agosto 2021
Biografia di Francesco Scianna raccontata da lui stesso
Francesco Scianna sta nel tinello della casa di Mongerbino, a Bagheria, dove c’è l’arco azzurro della pubblicità dei baci di cioccolato, dov’è cresciuto, dov’è tornato a 26 anni per girare Baarìa di Giuseppe Tornatore e dov’è adesso, come tutte le estati e i Natali, per vedere i genitori. Sulla credenza, sono allineate coppe e targhe vinte da ragazzino, giocando a tennis.
Poteva forse arrivare a Wimbledon, invece che ai Golden Globe con «Baarìa»?
«Quello più mio fratello, anche se avevo un servizio molto forte, giocavo a livello agonistico, però parallelamente anche a calcio. A 16 anni, ho dovuto mollare gli sport perché andavo a scuola, suonavo e studiavo recitazione. Il problema del tennis era che mi scattavano due cose snervanti... La prima è che, quando saliva la tensione, la testa vacillava e sbagliavo il colpo, la seconda è che mi dispiaceva per l’avversario. Mi dicevo: poverino sta malissimo. Forse, avevo già la deformazione da attore: l’immedesimazione era tale che mi sentivo l’altro, quello che soffriva bersagliato dai colpi».
Quando ha sentito, per la prima volta, che le era facile immedesimarsi negli altri?
«Mio padre ricorda che, a sei anni, gli ho detto: “Papà, sono doppio, sento un altro dentro di me”. Era cominciata guardando Tempi Moderni di Charlie Chaplin: c’era qualcosa in quel film, un mondo fantastico, un universo interiore, che mi dava malessere perché non capivo che potevo farlo mio. Era come se volessi vivere straordinarie vite parallele per esprimere mondi che non riuscivo ad afferrare. Come un occhio esterno che però era una voce interna. Forse, potrebbe essere: lo posso fare? Lo sto facendo bene? Oggi, quel doppio è diventato che lo faccio. Questi tre, quattro infiniti Francesco, come dice Pirandello, sono diventati un’unica materia. Ogni tanto, esce quello o quell’altro, ma sempre da un’unità molteplice».
Nel suo essere «uno nessuno e centomila», Francesco Scianna fu al principio salutato come il nuovo Marcello Mastroianni. Il physique du rôle è quello. Sarà prossimamente nella serie Sky A casa tutti bene di Gabriele Muccino e nel film Netflix Il filo invisibile di Marco Puccioni. È stato, fra l’altro, il divo sciupafemmine in Latin Lover di Cristina Comencini; l’avvocato spregiudicato e seduttore dell’Industriale di Giuliano Montaldo; Francis Turatello «faccia d’angelo» nel Vallanzasca di Michele Placido; il fidanzato infedele di Allacciate le cinture di Ferzan Ozpetek; il gangster napoletano Alendelòn dei Milionari di Alessandro Piva; lo zio del piccolo protagonista nella serie La mafia uccide solo d’estate di Luca Ribuolo; e il guidatore di biga nel Ben Hur di Timur Bekmambetov, accanto a Morgan Freeman.
Qual è momento in cui capisce che non sarà tennista o calciatore, ma attore?
«A 13 anni, quando ho visto il primo piano di Morgan Freeman nelle Ali della libertà. C’era tanta bellezza, semplicità, poesia in lui: sentivo che lottava per portare un’emozione. Mi sono detto: voglio fare la stessa cosa».
E quando si è trovato accanto a lui in «Ben Hur»?
«Mi sembrò una magia, stavo sempre a fissarlo. Non ho avuto il coraggio di dirgli che facevo quel mestiere anche grazie a lui. La stessa magia l’ho sentita girando Mary Magdalene, anche se, dal film, sono stato tagliato. Facevo il padre di una bimba miracolata da Gesù, ovvero da Joaquin Phoenix. Il regista ci aveva detto: o siete veri e convincenti o lui se ne va».
E Phoenix se n’è andato?
«No. La scena è stata tagliata perché hanno lasciato solo il miracolo in silenzio, era più d’impatto. Però, mentre giravamo, ho sentito che lui mi stava passando il testimone di un’emozione: era come in trance, aveva una luce dentro vista di rado. Sono felice di essere stato in scena con Gioacchino, lo chiamo così perché è uno di noi: girava per Trapani a piedi scalzi, andava in campagna coi cinghiali per sentire Dio o qualcosa da usare nel personaggio».
Anche lei vaga scalzo fra i cinghiali per entrare nel personaggio?
«Dipende dai ruoli. In Baarìa, passavo dai 26 agli 80 anni: il trucco aiuta, ma non può raccontare voce, occhi, movimento, il peso delle parole. Per quattro mesi, ho dormito due o tre ore a notte per svegliarmi piegato, mi alzavo alle quattro e andavo a correre per stancarmi, poi mungevo le vacche all’alba per sentirmi lui».
La cosa più estrema fatta per calarsi in un personaggio?
«In un film da cui sono stato tagliato. Sarebbe bello montare tutte le scene da cui sono stato tagliato... Era un piccolissimo ruolo da deejay drogato per Fai bei sogni di Marco Bellocchio. Ho perso sette chili in due settimane, mi sono inventato una dieta che stava per uccidermi, non mangiavo più niente e fumavo tanto per recuperare tossicità. Uscivo per strada ed ero pronto ad azzannare le persone. Mi hanno tagliato perché il film era lungo. Pazienza».
È sempre stato così indifferente alle traversie del suo mestiere?
«Il contrario. A 19 anni, dopo il primo anno di accademia, e dopo aver girato il film di Cristina Comencini, mi scelsero per fare un soldato al fianco di Anthony Hopkins, ma per motivi di coproduzione, dovettero affidare la parte a un inglese. Ne fui massacrato, mi sentii fallito in tutto. Ero ancora molto fragile».
Come nasceva tanta sensibilità e come ne è guarito?
«Ero un bimbo che vedeva un film e piangeva e che sentiva molto le mancanze: se uno dei genitori non c’era, pativo, però volevo mostrarmi forte e questo puoi pagarlo, è come se non ci fosse un flusso naturale fra il te razionale e la parte emotiva. Serve un percorso di scoperta, più o meno doloroso. Mi sono fatto aiutare e la cosa meravigliosa è che è un viaggio senza fine».
Un viaggio fatto come?
«È un delirio di salite, discese, cadute, porte in faccia, muri che ti si schiantano contro la testa, poi nuotate, poi volate... L’essere umano libero e vero e con una sensibilità spiccata è come il cielo, a volte limpido, a volte in tempesta. Poi, più maturi, ti accetti, ti conosci, ti vuoi bene e più alcune emozioni non ti portano più a cadere e a farti troppo male».
Mi racconti un cielo limpido.
«È recente. Mi scusi se cito Sartre: “Non siamo liberi di cessare di essere liberi”, ma questo cielo di felicità mi porta alla serie appena girata con Gabriele Muccino, che è un regista liberissimo. Spinge gli attori a cercare quella libertà che è il motivo stesso per cui ho scelto questo mestiere, come se fosse la liberazione di Francesco a se stesso. Quando la tocchi, è un volo di gioia, la perdita totale di controllo: in quel momento, puoi diventare qualunque cosa. A me, è capitato, poi, di allenarmi e sentire che il mio corpo era aria».
Da attore, regge la tensione o la testa vacilla come nel tennis?
«Nei primi spettacolini, quindicenne, un paio di volte, hanno dovuto chiamare l’ambulanza: mi sentivo svenire, avevo un nodo in gola. Era insicurezza, sfumata con l’esperienza, ma non del tutto. Quando ho girato L’industriale, dopo una scena, Giuliano Montaldo, venne a farmi i complimenti. Mi stringe la mano, dice: è freddissima. E io: lo so, maestro. Mi ha fissato per un attimo e ha detto: ti auguro di non perdere mai questa emozione. Da allora, quell’emozione me la tengo cara».
Cos’altro si tiene caro nel suo mestiere?
«Una certa intraprendenza. Luca Ronconi lo fermai a fine accademia alla Stazione Termini. Vidi quest’uomo col cappello bianco i cui spettacoli mi avevano stordito per bellezza, grandezza e complessità e che mi sembrava così irraggiungibile, e lo rincorsi. Ho sempre avuto il vizio di propormi. Poi, feci con lui il protagonista dello Specchio del diavolo e Troilo e Cressida. Una delle esperienze più formative della mia carriera. Facevamo quattro mesi di prove a Torino e io ero innamorato di una ragazza a Palermo. Vado a trovarla e, al ritorno, l’aeroporto di Punta Raisi era chiuso per nebbia. Feci cinque ore di ritardo. Quando arrivai, Ronconi mi guarda e mi fa: Scianna, sei un irresponsabile. Rimasi gelato. Mi aspettavo una sfuriata, ma fu molto più genio dicendo solo quella frase».
A proposito di fidanzate, lei ha gran fama di latin lover. È stato con attrici bellissime, come Matilde Gioli, Francesca Chillemi. Nel 2017, diceva di aver avuto un solo vero amore, come si spiega?
«Ora, sono stati di più, ma sono un essere complesso: non potrei avere uno storico diverso. Provo a spiegarglielo con Siddhartha di cui ho appena registrato l’audiolibro: lui aveva bisogno di fare tutto quel viaggio incontrando anche esperienze che all’inizio non sposava come possibili per sé, ma attraverso quel viaggio, la vita lo ha portato a diventare se stesso, il Siddhartha pieno».
In sintesi, ora, sta con qualcuno?
«No, ma il grande amore, se dovrà essere, sarà. Se dovessi incontrare la donna della mia vita a 80 anni, va bene, vuol dire che il mio tempo sarà a quell’età».
Si narra che una cosa da latin lover lei la fa o la faceva: abbordare le ragazze per strada.
«Le fermavo con una frase standard: “Giuro che non l’ho mai fatto prima”. Inventavo che ero un avvocato o un pilota di aerei. Non sempre funzionava. Poi, ho cominciato a diventare famoso e il gioco non ha più retto».
La popolarità è qualcosa che ha cercato?
«Mai come fama. La mia preghiera notturna, era: ti prego, Dio, fa che faccia un film da protagonista al cinema. Sempre, tutte le notti. Poi, vedevo i divi che subivano i piccoli incidenti della notorietà o cadevano nelle droghe. E aggiungevo: vabbé, Dio, fa che, diventi famoso ma non troppo, senza eccessi».
Il cielo di felicità di cui sopra sta durando?
«Sto benissimo. E, quando sto bene, sto bene forte, mi commuovo anche per la felicità».