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 2021  agosto 03 Martedì calendario

Passaggio in India, dove il cuoco è un sacerdote

Se mangi la mucca non puoi dirti induista. Se non credi in dio invece sì. È il sorprendente risultato di una ricerca del Pew Center, noto think thank di Washington specializzato in indagini sociali. Lo studio, pubblicato il 29 giugno scorso a firma di Jonathan Evans e Neha Sahgal, è stato condotto su un campione molto vasto che comprende i maggiori stati della Confederazione indiana.
Smentendo aspettative e stereotipi, i dati che sono emersi dal dossier dimostrano che a fare la differenza tra un credente e un non credente è prima di tutto l’osservanza delle regole e dei precetti alimentari. Insomma, mangiare come dio comanda è molto più importante che credere al dio che comanda. Lo afferma il 72% degli intervistati. Mentre il 51% pensa che una persona che si dice atea, che non frequenta mai i templi, che non prega, possa essere comunque un bravo devoto, con buona pace di Brahma, Vishnu e Shiva. Le tre divinità principali di un pantheon dove ci sono solo posti in piedi, visto che conta la bellezza di 330 milioni di immortali. Come dire che ci sono più dei tra l’Indo e il Gange che abitanti tra il Manzanarre e il Reno. E se si pensa che ogni indiano digiuna settimanalmente nel giorno del nume cui ha scelto di votarsi, si capisce subito che nella terza religione al mondo per numero di seguaci, la tavola si allunga fino a diventare altare. Per Shiva, il distruttore, si sta a pancia vuota il lunedì. Per il dio scimmia Hanuman, il martedì. Il mercoledì si stringe la cinghia per Ganesh, il dio elefante che porta fortuna. Il giovedì si sta a dieta per Vishnu, il protettore del mondo. Il venerdì ci si astiene dal cibo sia per Shakti, la dea madre, sia per Kali la sanguinaria Signora dalle otto braccia. Il sabato bocca asciutta per Shani, il cacciatore celeste. Mentre la domenica è il giorno sacro a Surya, il sole, proprio come il Sunday degli inglese e il Sonntag dei tedeschi. In questi giorni agli induisti è permesso consumare solo un po’ di latte, tè, o caffè. E dopo il tramonto, una nanocena a base di frutta, verdura e cereali.
Per loro rinunciare al cibo serve a purificare il corpo per elevare l’anima. Non a caso la parola upvas che indica il digiuno, significa letteralmente “sedere vicino a dio”. Inoltre, questi esercizi di temperanza, i cosiddetti vrata, corrispondenti ai nostri fioretti, liberano l’uomo dalla servitù della carne e dal samsara, il ciclo delle reincarnazioni. Che, diversamente da quel che pensiamo noi occidentali, per gli indiani è un vero castigo di dio. Una prigione dalla quale è difficile liberarsi. Di fatto le tradizionali rinunce alimentari induiste anticipano il digiuno intermittente che è diventato un mantra della dietetica contemporanea. Che considera lo stomaco vuoto un modo per resettare il corpo e farlo ripartire a tutto gas. Mentre per i seguaci della sacra Trimurti (Brahma, Vishnu e Shiva), la privazione favorisce la contemplazione, libera dalla schiavitù del desiderio e schiude le porte della compassione. Un’idea non lontanissima da quella di papa Benedetto XVI che ha definito il digiuno uno strumento per mortificare il nostro egoismo ed aprire il cuore al prossimo. Insomma, anche per gli indiani, non di solo pane vive l’uomo. Ma questo ascetismo diffuso non significa che il cibo non sia centrale nell’induismo. Al contrario, le regole che disciplinano la cottura e il consumo degli alimenti, rappresentano addirittura la chiave di volta del sistema religioso. Al punto che il cuoco ideale è addirittura il brahmano, il sacerdote. E l’insieme dei riti che egli compie viene definito lokapakti, letteralmente “cottura del mondo”. Lo ha spiegato mirabilmente Charles Malamoud in una serie di libri epocali meritoriamente tradotti in italiano da Adelphi.
Come la cucina amalgama ingredienti differenti, così la religione, attraverso i numerosissimi riti e sacrifici che costellano la vita quotidiana, amalgama le differenze tra gli uomini per renderle compatibili. Ecco perché il simbolismo alimentare è al centro dell’insegnamento contenuto nei sacri testi. I Veda, iBrahmana, nonché la Smriti, che dei primi due contiene le norme interpretative e le istruzioni per l’uso. In effetti, in un mondo dominato, se non ossessionato, dal diktat della purezza come quello indù, il cibo è al tempo stesso la materia del sacrificio, quindi del contatto con il divino, e il principale veicolo dell’impurità. E il momento del pasto è il più pericoloso. Visto che il principale agente della contaminazione è proprio la persona che cucina, soprattutto se appartiene a una casta più bassa di chi consuma il cibo. Nella terra dei maharaja, infatti, più si scende di casta più cresce l’impurità. Il puro per antonomasia è il brahamano, l’impuro il paria. E il simbolo stesso della purezza è il ghi, cioè il burro chiarificato prodotto con il latte delle mucche sacre, bruciato nelle lanterne per compiere il rituale del fuoco e spalmato sulle statue degli dei. E proprio perché potente il cibo può diventare pericoloso. Infatti, gli avanzi del pasto vengono maneggiati con cura, perché recano la traccia corporea di chi li ha cucinati e sbocconcellati. Pertanto, chi non riesce a finire il pranzo deve buttare via quel che rimane nel piatto. Non si può nemmeno gettarlo nel fuoco, soprattutto se si tratta di avanzi di offerte sacrificali, perché sarebbe come offrire scarti agli dei. E quando si celebra la cerimonia mensile dello ?r?ddha, un rituale funebre offerto agli antenati, con una parte dei residui si prepara una sorta di brodaglia che viene destinata agli spiriti dei bambini morti senza cremazione. O agli adulti uccisi dal morso di un cobra. Come dire i paria dell’altra vita.
È l’opposto di noi occidentali che consideriamo lo spreco un peccato, l’arte del riciclo una virtù morale, economica ed ecologica, ed abbiamo inventato pratiche di recupero come il doggy bag. Per la stessa ragione gli indiani sono molto diffidenti nei confronti degli alimenti cotti, perché sono i più manipolati. Mentre quelli crudi hanno una sorta di purezza naturale, non essendo stati toccati da mani umane. Ecco perché il brahmano, cioè l’essere puro per eccellenza nonché il più in alto nel sistema delle caste, è il cuoco ideale. E le grandi famiglie spendono cifre da capogiro pur di avere ai fornelli un sacerdote, l’uomo che alimenta gli dei. Solo così hanno la certezza che la loro alimentazione sia altissima, purissima, levissima. Cosa non si fa per mangiare da dio!