12 luglio 2021
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Biografia di Ernő Rubik
Ernő Rubik, nato a Budapest (Ungheria) il 13 luglio 1944 (77 anni). Progettista. Architetto. Inventore. «Non ho inventato il cubo: l’ho scoperto. È tutto basato sulle potenzialità della fisica, sulle regole e sulla natura dello spazio: ho solo fatto emergere quello che già c’era» (a Nicola Baroni) • Figlio di un ingegnere aeronautico («che non amava scherzare») e di una poetessa (capace di «trasformare facilmente le lacrime in risa e sorrisi»), «nacque a Budapest nel luglio ’44, pochi mesi prima che la città venisse diroccata dal lungo assedio, dai combattimenti di tedeschi e russi “liberatori”. Il giovane Rubik, troppo piccolo per patire l’orrore dello stalinismo rakosiano e la drammatica insurrezione del ’56, è cresciuto nell’Ungheria di János Kádár, la più “allegra baracca del patto di Varsavia”. C’era il socialismo reale in Parlamento, nelle insegne, nelle officine, e tra le pieghe lasciate lasche dal regime prosperava la grande arte, il cinema, la letteratura, la grafica, ambasciatrice nel mondo del modello ungherese» (Bruno Ventavoli). Particolarmente importante per la sua formazione l’esempio del padre (che peraltro, oltre al cognome, gli aveva trasmesso anche il proprio nome, Ernő): «Accanto a lui ho imparato molto sul lavoro nel senso di un processo di creazione di valore che ha un obiettivo, e anche un risultato positivo. Sia in senso figurato che letterale, era una persona capace di “spostare una collina”. Non c’era alcunché che potesse impedirgli di fare ciò che aveva deciso o di portare a termine un progetto, se necessario anche con le proprie mani». Da bambino rivelò una «precoce passione per il disegno, i rompicapo – tangram, pentamino – e gli scacchi: “Mi dedicavo al percorso del cavallo per ore, disegnando le traiettorie su una griglia e vedendole concretizzarsi man mano che muovevo il pezzo…”. Il re degli scacchi!» (Paolo Di Paolo). «“Ho sempre inseguito gli enigmi: passavo ore a ideare strategie per soluzioni nuove. Alcuni puzzle mi piacevano per la flessibilità e la capacità di cambiamento. Altri perché l’idea di fondo era espressa con semplicità. Altri ancora perché fornivano una cornice all’improvvisazione. Se il rompicapo era facile, lo ignoravo”. Preferiva giocare o progettare un gioco? “Trasformavo qualsiasi oggetto in un giocattolo, come fa la maggior parte dei bambini. Legnetti, fili e scatole creano qualcosa di eccitante”» (Massimo Cutò). «Da ragazzo si sentiva “sempre fuori luogo, incapace di comunicare con i coetanei”» (Marina Cappa). «Dopo gli studi in scultura e architettura, Rubik entra in un’accademia d’arte, prima come studente e poi come insegnante di Geometria descrittiva» (Baroni). Nella primavera del 1974 «cercavo un modo per dimostrare i movimenti tridimensionali ai miei studenti. Una sera, ricordo che pioveva, mi ritrovai sulla riva del Danubio, a guardare come l’acqua si muoveva intorno ai sassolini. L’ispirazione per il movimento di torsione del cubo mi venne in quel momento. Mi chiusi nell’appartamento di mia madre per tre settimane» (a Marco Imarisio). «La mia stanza era come la tasca di un bambino, piena di biglie e altri tesori: pezzi di carta con scarabocchi e immagini, matite, pastelli, spago, bastoncini, colla, spilli, molle, viti, righelli. Questi oggetti avevano invaso ogni angolo […] In teoria era la stanza dove preparavo le lezioni e dove poteva venirmi qualche idea per i miei studenti. In realtà si sarebbe rivelata essere molto di più. Un giorno […] avevo pensato che sarebbe stato interessante assemblare otto piccoli cubi in maniera tale che restassero uniti fra loro ma fosse anche possibile spostarli singolarmente. Non avevo la benché minima idea se avrebbe potuto essere interessante per qualcun altro […] Anzitutto, costruii otto identici cubi di legno, i cui spigoli avrebbero potuto essere levigati (non credo che all’inizio i miei lo fossero, ma è più carino immaginarli così). Poi praticai un foro in un angolo di ogni cubetto in modo da poterli collegare due a due con un elastico e ottenere quattro coppie. Dopodiché, collegai le coppie tra loro agli angoli opposti, creando così un cubo 2×2×2 formato da cubi più piccoli dei quali potevo ruotare le facce autonomamente, ma in modo che restassero uniti. Sentivo di aver risolto il problema! […] Ci volle poco per capire che la mia magistrale costruzione non risolveva un bel niente. Infatti si disfò letteralmente. Al suo interno scoprii un grosso nodo incredibilmente aggrovigliato. L’elastico sopportava la tensione per un po’ di tempo, ma a forza di rotazioni si spezzava. […] Nei giorni seguenti cominciai a studiare la natura del problema e le sue possibili soluzioni. […] Erano due i punti essenziali del sistema: gli assi di rotazione e gli elementi colleganti. Sostituii allora gli elastici con una lenza da pesca, ma non era ancora questa la soluzione ottimale. Erano necessari degli elementi rigidi. Tentai allora di rendere la soluzione leggermente più complessa ma anche più semplice, separando le due funzioni: quella di permettere la rotazione intorno a un certo asse e quella di creare una forza di coesione che tenesse insieme i singoli pezzi. Conclusi che la soluzione non sarebbe stata fornita da un cubo 2×2×2 ma da uno 3×3×3. […] Così fu realizzato il mio primo modellino in legno… e funzionava! Il modello, tuttavia, aveva solo ventisei pezzi. All’inizio pensavo che il cubo centrale fosse superfluo dal punto di vista costruttivo. In seguito mi resi conto che invece era essenziale. Anzi, che era proprio il nucleo in grado di tenere insieme tutto il resto. Quello che avevo realizzato era chiaramente un oggetto, ma, particolare più interessante, era la materializzazione tridimensionale di un concetto». «Le facce di quel primo cubo, […] ancora privo di un nome, erano però identiche tra loro, dunque il movimento non provocava alcun risultato. Non era ancora un gioco vero e proprio. Come si può cogliere la variazione di un ordine se tutte le parti restano uguali a se stesse? Pensò così di assegnare alle sei facce della sua invenzione un colore diverso, applicando degli adesivi sui cubetti di legno. Partì dai colori primari, rosso, blu e giallo, a cui aggiunse il verde, l’arancione e il bianco (che gli parve più “maschile” del viola). A quel punto iniziò a giocarci. Prima ruotando solo una faccia per tornare subito indietro, intimorito. Poi ne girò due. Con un brivido azzardò la terza, riuscendo ancora a ricostituire l’ordine iniziale. “Dopo altre rotazioni, intorno ad assi diversi, mi risultava ancora facile tornare allo stato originale”. Ma l’ignoto era dietro l’angolo. […] “Proseguendo oltre, […] era come smarrirsi in una città sconosciuta, un’esperienza a volte esaltante, altre esasperante. Bastano uno o due incroci in più, e tornare al punto di partenza diventa sempre più difficile; dopo qualche altro incrocio, addirittura impossibile”. Fu un trauma sconvolgente […] “Avevo creato il caos ed ero impotente, non avevo la minima idea di come avrei potuto trovare la strada del ritorno”. […] Il trauma di questa esperienza gli avrebbe provocato un incubo ricorrente per tutta la vita: da quel giorno Ernő Rubik avrebbe sognato di trovarsi in un albergo immenso senza sapere più come tornare a casa. […] Ci impiegò un mese, e deve essere stato un mese di notti insonni. Eppure riuscì autodidatta nella sua sfida, diventando la prima persona nella storia a risolvere il cubo» (Luigi Farrauto). «Uh, quello, sì, che fu un lavoraccio! Non ero per niente sicuro che il cubo fosse risolvibile. Mi ci misi di impegno, studiai le varie possibilità, feci calcoli ed esperimenti. Quel giocattolo diventò la mia ossessione, non ci dormivo la notte. Ricordo il momento della vittoria: fu una sensazione fantastica, qualcosa di irripetibile» (ad Andrea Sceresini). «“All’epoca era solo un hobby. Il tempo volava. Andavo a lavorare. Vedevo gli amici. Vivevo la mia vita. Mantenevo la mia routine e, intanto, perfezionavo la struttura dell’oggetto, realizzando nuovi modelli che funzionavano meglio. Quando avevo un po’ di tempo, giocavo a risolverlo”. Una volta definita l’idea, Ernő capisce che deve proteggerla con un brevetto. “Mi rivolsi a un avvocato specializzato in Diritto industriale, che mi fece fare alcuni disegni e scrivere una descrizione di ciò che avevo realizzato. Fu necessario tempo, ma alla fine, nel 1976, il cubo venne brevettato”. Dopo 6 mesi, arriva il momento di passare alla fase successiva: mettere il cubo in produzione. L’Ungheria è un Paese privo di una particolare tradizione nella realizzazione di giocattoli. Nella scuola in cui insegna, però, grazie all’aiuto di alcuni amici, testa materiali diversi» (Lucia Ingrosso). «Non era facile sfogare il genio in un’economia pigra, burocratizzata, ingabbiata in piani quinquennali illusoriamente scientifici. Nel ’75 trovò una fabbrica di giochi per l’infanzia socialista, ma ci volle del tempo prima di risolvere i problemi pratici per la produzione di massa» (Ventavoli). «Era il 13 luglio 1977. In un negozio del centro di Budapest, nella Ungheria che era ancora oltrecortina, appare per la prima volta Bűvös Kocka, prodotto dalla Politechnika, azienda di Stato come tutte le altre, un oggetto che ben presto sarà ribattezzato Magic Cube. “Era lui, magari in una versione più rozza di quelle seguenti”» (Imarisio). «Entro fine 1979 ne vengono venduti 300 mila esemplari in Ungheria, Paese da 10 milioni di abitanti. […] Ma il gioco non sfonda all’estero (dove a quell’epoca ha venduto “solo” mezzo milione di pezzi). “Il cubo viene rifiutato da tutte le principali aziende di giocattoli internazionali, perché ritenuto troppo difficile. Capire lo scopo del gioco richiede meno di un minuto, eppure ci vuole una vita per risolverlo, e la cosa viene ritenuta scoraggiante. Senza contare che i rompicapi rappresentano una piccola quota del mercato dei giocattoli”» (Ingrosso). «La fortuna cominciò quindi solo quando Tibor Laczi, rappresentante di computer, vide un cubo in mano a un cameriere e capì che quell’oggetto poteva cambiargli la vita. Andò a trovare Rubik. Lo ricorda così: “L’uomo che mi venne incontro sembrava un mendicante, vestito malissimo; d’altra parte, negli anni il suo stile non è cambiato granché: fuma solo sigarette migliori. Ernő mi è subito piaciuto, ma una vera amicizia è sempre stata impossibile: lui non parla mai”. La comunicazione fu laconica ma risolutiva, perché da quel momento Laczi cercò il partner giusto per il mercato internazionale. Finché conobbe l’inglese Tom Kremer, esperto di giochi» (Cappa). «Un incontro fortuito e fortunato, quello con Tom Kremer, nato in Transilvania (all’epoca territorio dell’Ungheria, oggi della Romania), sfuggito all’Olocausto. Trasferitosi in Inghilterra, aveva aperto una piccola attività che finanziava proprio lo sviluppo di nuovi giocattoli. Intuendo il potenziale del cubo, Tom convince la Ideal Toy Corporation, grossa azienda americana sull’orlo del fallimento, a giocarsi un’ultima carta scommettendo sul cubo. Viene contrattualizzato così l’acquisto di un milione di pezzi da vendere negli Usa» (Ingrosso). «Nell’80 l’Ideal Toy Corporation esportò il cubo dal Patto di Varsavia, ribattezzandolo. E il cognome dell’inventore, così esoticamente ungherese, giovò al marketing. Fu una pandemia» (Ventavoli). «In 3 anni, si vendono 100 milioni di pezzi e il cubo finisce al MoMA di New York e, a più riprese, sulla copertina di Time» (Ingrosso). «La prima volta che mi chiamarono negli Usa per un congresso, sulla targhetta davanti al mio posto c’era scritto “Rubik Cube”». «Quando ricevette il passaporto azzurro, non ebbe la tentazione di lasciare il Paese, allora oltrecortina? “Non avevo bisogno di particolari strumenti per lavorare, e ho sempre creduto che i problemi ti inseguano ovunque tu vada”» (Baroni). «Nel 1983 la Ideal Toy aveva già venduto cento milioni di pezzi, ma il rapporto fra creatore e creazione si incrinò. La gente lo fermava per strada, dissero che era l’uomo più ricco d’Ungheria e lui scelse di eclissarsi: “Quel tipo di successo era come la febbre, e la febbre alta può essere molto pericolosa. Non è la realtà”» (Francesco Musolino). «Rubik ha inventato altre varianti del gioco, tutte meno fortunate. Lo stesso cubo, assediato dall’elettronica, dopo anni febbrili perse appeal nei Novanta. Con il boom di internet è rinato a nuovo successo. Lo celebrano migliaia di siti per fan, collezionisti, studiosi, blog e video con robot che risolvono il problema» (Ventavoli). «Rubik, intanto, s’è ritirato in pensione. Ha lasciato in mano ai giovani la piccola azienda, e ha creato un’accademia che finanzia idee. Talvolta appare in pubblico, assiste a qualche campionato mondiale, stupito come un padre amorevole per il talento di quegli strambi figli che ha creato. Più spesso vive ritirato, refrattario alla pubblicità» (Ventavoli). «Come mai adesso si è messo a disegnare videogiochi? “Il cubo si trova al confine di molte cose: scienza, arte, ma anche mondo digitale e analogico. Credo che abbia rappresentato un’anticipazione della rivoluzione digitale, e si intreccia bene col mondo del computer”» (Paolo Mastrolilli) • «Una persona su 7 al mondo ha giocato almeno una volta con il cubo di Rubik. Tradotto in cifre: un miliardo di persone. A oggi, con 450 milioni di pezzi, è il gioco più venduto di sempre» (Ingrosso). «Già nel 1982 si tenne il primo campionato mondiale a Budapest, vinto a mani basse da uno studente vietnamita, che risolse il cubo in 22 secondi, come uno schiaffo nei confronti dei trenta giorni impiegati dal suo inventore. Non c’è limite alla grammatica generativa del cubo. Dalla sua versione originale, 3×3×3, sono state tratte le varianti 5×5×5, 2×2×2 e la temutissima 4×4×4. Oggi esistono centinaia di tornei organizzati ovunque e svariate modalità di giocarci: c’è chi lo risolve bendato, con una mano sola, o persino coi piedi. I record mondiali vengono stracciati ogni anno, creando stupori e polemiche nella comunità degli appassionati. Ci sono scuole di pensiero e di risoluzione, tecniche elementari e avanzate, ma esistono anche i metodi intuitivi; è stato coniato persino un nome per definire i giocatori più accaniti contro il tempo: speedcuber. […] Il campione mondiale, Du Yusheng, oggi è in grado di sfidare 43 trilioni [cioè (oltre) 43 miliardi di miliardi – ndr] di possibilità in meno di quattro secondi: tre virgola quarantasette» (Farrauto). «È entrato nei film, nei libri, nell’arte (c’è il movimento “Rubikcubism”), negli abiti, nei gioielli (esiste il cubo in oro tempestato di pietre preziose)» (Ventavoli). «È pure un’icona del nostro tempo. Basti pensare che, quando l’ex agente della National Security Agency più ricercato al mondo, Edward Snowden, ha incontrato in un ristorante di Hong Kong i giornalisti a cui voleva rivelare i segreti dello spionaggio digitale americano, ha dato loro appuntamento così: “Mi riconoscerete perché terrò in mano un cubo di Rubik”» (Mastrolilli) • Oltre al cubo (che ha più volte definito il suo primogenito, rimarcandone peraltro il sesso maschile), ha quattro figli: due femmine dalla prima moglie, un maschio (Ernő, come lui stesso e come suo padre) e una femmina dalla seconda e attuale consorte • «Rubik […] vive oggi sulle colline di Buda, alle spalle della capitale ungherese. Ama la solitudine, non vuole incontrare estranei. […] Si dedica a piante e fiori. Al gioco degli scacchi: solo contro se stesso. Alle gite in kayak sul lago Balaton, dove con i diritti accumulati negli anni si è costruito la casa delle vacanze. Mentre in Austria ha progettato ed edificato un’altra villa: interamente in marmo. “Il cubo”, ammette, “mi ha fatto guadagnare molto, mi ha permesso di comperarmi una bella auto, di viaggiare per tutto il mondo, di vivere seguendo i miei sogni e facendo ciò che mi piace, soprattutto la progettazione di giardini”. […] Solipsista al limite del patologico. Un esempio. Quando si sposò, […] disegnò da solo la casa dove avrebbe abitato: una grande vetrata sul giardino, un piano superiore con camere da letto e studio, sauna, piscina, un ampio garage. Ma niente sala da pranzo. Strano? No, meditato: “Spero di non avere mai ospiti a cena”» (Cappa). • «Uomo di molta ironia e poche parole» (Cutò). «L’uomo è enigmatico come la sua invenzione. […] Non parla quasi mai, schiva i media in ogni modo possibile. Se entrasse in un vagone della metropolitana, nessuno riconoscerebbe quel distinto signore […] dai capelli bianchi, gli occhi limpidi, lo sguardo distaccato e giusto un filo di pancetta a tradire una forma altrimenti ottima» (Imarisio). «L’uomo e il gioco in realtà si assomigliano. Spigolosi, difficili da maneggiare, refrattari alle risposte facili» (Cappa) • «Non mi reputo un professionista in alcun campo. L’amatore è motivato solo dall’amore per ciò che fa, gode per il processo di scoperta, mentre il professionista deve sempre pensare all’obiettivo» • «A me interessava il discorso della tridimensionalità: un oggetto a tre dimensioni non è mai percepibile nella sua interezza. Devi girarci attorno, esaminando un lato per volta e tenendo sempre a mente ciò che hai visto dall’altra parte. È un ottimo esercizio per il cervello. Se il cubo ha un segreto, io credo che sia questo». «In fondo è un piccolo modello dell’universo, dove semplici elementi si combinano in forme molto complicate» • «Risolvere il cubo richiede attenzione ai particolari di un problema più ampio. Capisci che talvolta la via più breve non è una linea retta» • «Quando ogni faccia è al suo posto, provo una sensazione di pace e di sicurezza. Eppure, avverto anche qualcosa di spaventoso, come se avessi a che fare con una bestia feroce pronta a scattare» • In quanto tempo lei risolve il cubo? “Più o meno un minuto: non male per un vecchietto”. […] La sua stanza di progettista era quella di un bambino: biglie, monete, spago, colla, viti e così via. Rubik adesso è diventato adulto? “Beh, ho più spazio a disposizione. Ho una moglie che mi incoraggia gentilmente a tenere in ordine le mie cose. Ma tengo ancora tutta quella roba a portata di mano: mi piace lavorare sui modelli usando strumenti fisici, anziché affidarmi solo a software e schermo digitale. Non butterei mai via un buon elastico o un bel filo di ferro: magari ne avrò bisogno la prossima volta”» (Cutò) • «Se fosse vissuto nel passato, quale oggetto le sarebbe piaciuto inventare? “La ruota. Creda a me: è fondamentale”» (Sceresini).