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 2021  luglio 20 Martedì calendario

Biografia di Cat Stevens (al secolo Steven Demetre Georgiou; nome islamico: Yusuf Islam)

Cat Stevens (al secolo Steven Demetre Georgiou; nome islamico: Yusuf Islam), nato a Londra il 21 luglio 1948 (73 anni). Cantautore. «Da ragazzo la musica era la mia religione. Ero un sognatore alla ricerca della verità. Quando ho scoperto per caso il Corano, ho capito che tutte le risposte di cui avevo bisogno erano lì dentro» • Terzo e ultimo figlio di un greco-cipriota di religione greco-ortodossa e di una svedese battista, crebbe nel quartiere londinese di Soho, dove i genitori gestivano il ristorante Moulin Rouge, e frequentò una scuola cattolica. Ha definito il rhythm & blues «la scintilla da cui è iniziata la mia carriera: è stato dopo aver ascoltato alcune incredibili incisioni provenienti dagli Stati Uniti che ho voluto dedicarmi alla musica. Ma poi, appena ho avuto in mano una chitarra, mi sono orientato verso il folk blues. La musica folk ha conosciuto una grande stagione a Londra: anche Bert Jansch, Davey Graham, Paul Simon sono passati attraverso questa fase. C’era un club dove ci ritrovavamo per ascoltare questa grande musica proveniente dagli Stati Uniti: le registrazioni della Motown, i concerti di Chuck Berry e di Ray Charles. Tutte le celebrità che abbiamo amato sono passate attraverso il blues» (a Peter Reynolds). «Se c’è qualcuno che ha influenzato il mio modo di cantare, è stata […] Nina Simone. […] Interpretò I Got Life, una canzone del musical Hair, che a Londra andava in scena in un teatro davanti a casa mia. Sono cresciuto con Hair» (a Giuseppe Videtti). «Cosa si aspettava dalla musica quando era un cantautore nella Swinging London, il periodo che determinò un’invasione globale della musica inglese? “Fu entusiasmante e contagioso. Musicalmente, Londra era al centro del mondo, la nuova Tin Pan Alley. E io vivevo a Soho, che era il centro della scena musicale: i Beatles avevano i loro uffici a due passi da casa mia, Andrew Loog Oldham (il produttore dei Rolling Stones dal ’63 al ’67) faceva i suoi affari nel quartiere. Non dovevo andare lontano per realizzare i miei sogni: tutto succedeva proprio lì”» (Videtti). «Già negli anni della scuola, all’Hammersmith College, si segnala per sensibilità artistica. Lo nota il produttore Mike Hurst e dalle prime prove in studio nasce il brano I Love My Dog (sul retro Portobello Road)» (Mario Luzzatto Fegiz). Sulla copertina di quel primo singolo, anticipazione del primo album Matthew and Son (1967), figurava già il nome d’arte «Cat Stevens». «È vero che è diventato “Cat” perché una sua ex ragazza pensava che avesse gli occhi di un gatto? “È vero, uscivo con una ragazza che lo pensava. Ma, soprattutto, il gatto è indipendente. Graffia. Io sono un micio coccolone, ma se coccoli troppo a lungo un gatto lui se ne va. Non gli piace essere manipolato. Io credo di avere molte delle caratteristiche di un gatto”» (Reynolds). «Nel marzo del 1967 Cat Stevens è in tour con Jimi Hendrix e gli Walker Brothers. Tra il ’68 e il ’69, all’apice dello stress, non gradisce gli arrangiamenti pop che la discografia impone alle sue canzoni ed è costretto al riposo per i postumi di una tubercolosi» (Luzzatto Fegiz). «Ci volle un anno prima che Stevens tornasse pienamente in salute: dalla convalescenza il cantautore emerse con brani a sufficienza per tre album e, soprattutto, con molte letture spirituali alle spalle. In particolare lo aveva colpito The Secret Path, Il sentiero segreto, scritto dal mistico inglese Paul Brunton. “C’è un punto in cui Brunton scrive: ‘Non sarai mai soddisfatto finché non avrai raggiunto la verità’. Mi ricordo che pensai che sarebbe stato meglio se non avessi mai letto quelle parole. Perché da quel momento in poi non sono più riuscito a stare fermo: non volevo lasciare questo mondo senza trovare un posto di pace, dove niente avrebbe potuto turbarmi, neanche la morte”» (Paola De Carolis). «Cat Stevens era appena guarito dalla tubercolosi quando pubblicò i due album che lo avrebbero reso celebre per sempre. Mona Bone Jakon e Tea for the Tillerman videro entrambi la luce nel 1970. Ventidue canzoni tutte d’un fiato che cambiarono la vita di questo giovane cantautore inglese, all’epoca poco più che ventenne» (Carlo Antini). «Quando il 23 novembre del 1970 pubblicò il quarto album, Tea for the Tillerman, era già un cantautore maturo che aveva suonato con Hendrix in giro per il Regno Unito: fu un trionfo, una svolta nella carriera, […] la combinazione per aprire la cassaforte del mercato americano. Sembrava un idolo pop come tanti: notti folli a Roma con Helmut Berger e Florinda Bolkan, girlfriend sexy come Patti D’Arbanville e Carly Simon, vita da nababbo sulle coste del Pacifico e adorazione popolare, proprio grazie alle canzoni di Tillerman: Father and Son, Wild World, Where Do the Children Play?, Sad Lisa. […] “Sapevo esattamente a cosa andavo incontro, sapevo che il mondo dello spettacolo poteva essere spietato, imparai a tirarmi indietro quando le cose prendevano una brutta piega. Volevo rimanere fedele ai miei princìpi, alle parole che avevo scritto, a costo di scomparire dalla scena proprio nel momento di massimo successo. E infatti, quando la pressione divenne enorme, dopo Teaser and the Firecat e Catch Bull at Four, mi ritirai in Giamaica per incidere Foreigner, cambiando completamente musicisti e produttore. Lo chiamai così, ‘Straniero’, perché avevo bisogno di tornare a essere uno qualunque, di evolvermi e non diventare schiavo del successo”» (Videtti). «Ormai star, sull’onda dell’esoterismo e misticismo orientale che avevano portato in India e in Nepal i Beatles, pareva essersi avvicinato al buddismo. Frangetta sugli occhi, barba, capelli lunghi e ricci, sahariane kaki e occhialini psichedelici, era l’immagine in cui si specchiavano milioni di giovani ancora incerti fra pacifismo, misticismo e rivoluzione» (Marinella Venegoni). «Le acque del Pacifico sono fredde anche d’estate. A Malibù, nelle spiagge private dei miliardari, non ci sono bagnini di guardia. Il cantautore nuota agile verso il largo, si allontana pericolosamente dalla riva. Cerca di tornare indietro, ma la corrente è troppo forte. Sta per soccombere, è nel panico, grida: “Dio, se mi salvi lavorerò per te”. In quell’istante un’onda potente lo solleva e lo scaraventa verso la riva. “Era tutta l’energia di cui avevo bisogno: in poche bracciate raggiunsi la spiaggia, sano e salvo. Fu un momento grandioso: sapevo che Dio esisteva, e che avevo rinnovato un contratto con lui”, mormora. […] Era il 1975, il successo non gli dava tregua. “Mi sentivo vuoto, insoddisfatto, già da anni vivevo in Brasile, lontano dalle pressioni dello show business. Dopo l’episodio di Malibù, cominciai freneticamente a indagare tra le religioni per mantenere la mia promessa: nozioni di buddismo, induismo, numerologia, astrologia, fino a quando David, mio fratello maggiore, mi portò da Gerusalemme una copia del Corano”» (Videtti). «“Quando cominciai a leggerlo, fu una rivelazione. Trovai un senso di appartenenza, ero come un torrente che alla fine aveva trovato il mare. Fu qualcosa di miracoloso: tutto accadde mentre leggevo un capitolo dedicato a Giuseppe, lo stesso della Bibbia. Per questo ho scelto il nome di Yusuf, l’equivalente in arabo di Giuseppe: la mia prima scuola si chiamava San Giuseppe, e nelle recite sacre di Natale volevo sempre interpretare San Giuseppe. Ora, attraverso il Corano, ero ormai pronto ad accettare l’esistenza di Dio. Islam significa sottomissione: musulmano è colui che si è sottomesso”. Si convertì all’islam nel ’78, mentre gli illusi giovani postrivoluzionari di tutta Europa andavano in pellegrinaggio da Khomeini esule a Parigi. “Andai alla nuova grande moschea di Londra, chiesi all’imam di diventare musulmano. Da allora tutto fu facile”. Fu facile anche abbandonare la musica. “Stava per uscire, allora, Back to Earth. Già da tempo non tenevo più concerti. Chiesi all’imam come regolarmi: mi disse di rinunciare all’attività in pubblico, ma potevo continuare a incidere dischi. Ho preferito smettere: non potevo pormi ancora come un idolo, non è ammesso dall’islam”. […] Cat Stevens ha tenuto un ultimo concerto, per beneficenza, nel ’79: poi, messi all’asta tutti gli strumenti musicali, ha chiuso per sempre con la musica. […] Quando sparì dalla circolazione, molti fan pensarono fosse morto. Lo scovò un giornale musicale tedesco, cui Yusuf dettò un auto-necrologio: “Cat Stevens è stata una figura transitoria. Come una stella che è apparsa per un momento e poi è andata a riposare nell’islamismo”» (Venegoni). «Così Steven Demetre Georgiou, in arte Cat Stevens, assunse legalmente il nome di Yusuf Islam, sposò nella moschea di Kensington Fauzia Ali, che gli ha dato cinque figli, e cancellò il suo nome dall’albo d’oro del pop» (Videtti). «Il resto è storia in bilico tra cronaca e polemica: la vicinanza all’Islam radicale; […] l’appoggio alla fatwa di Khomeini contro Salman Rushdie (poi ritrattato); le conferenze nelle università di Paesi come Turchia e Malesia; la fondazione di una scuola islamica a Londra; lo studio della lingua araba per affrontare personalmente l’analisi del sacro testo; il viaggio in Bosnia per documentare il massacro degli ottomila musulmani di Srebrenica; le molte accuse (mai provate) di finanziare attività terroristiche; l’amicizia con Muhammad Ali e Nelson Mandela; la presunta amicizia con il leader turco Erdoğan. E, nel frattempo, l’umiliazione subita al Live Aid: nel 1985 Bob Geldof, che l’aveva invitato a una manifestazione zeppa di star, dimenticò di chiamarlo sul palco, segno che l’astro di Cat Stevens era definitivamente tramontato e nessuno ricordava il volto dell’autore di Father and Son. […] La tragedia dell’11 settembre segnò l’inizio del ripensamento: gli Usa lo dichiararono ospite non gradito, ma per lui l’attacco alle Torri fu anche l’occasione per riconsiderare il proprio percorso spirituale e valutare, prove alla mano, le insidie della radicalizzazione. Dopo una serie di album rigorosamente religiosi e diffusi principalmente nei Paesi islamici, Yusuf la smise, di rinnegare Cat, e riprese – con moderazione, come il Corano impone – il suo mestiere di cantautore» (Videtti). «Fu Peter Gabriel (nel 1970, ancora sconosciuto, aveva suonato il flauto in Mona Bone Jakon, il terzo album di Cat Stevens) che per riparare la clamorosa gaffe del Live Aid invitò il vecchio amico a esibirsi al concertone 46664 in onore di Nelson Mandela (il 29 novembre 2003, a Città del Capo). L’esibizione di Wild World fu scarna ed essenziale, con Yusuf troppo emozionato di fronte a quell’oceano di folla cui non era più abituato, ma fu quella l’occasione che fece scattare la scintilla e […] cominciò a far sperare in una ripresa per un futuro da cantautore. Ci mise 28 anni per incidere un nuovo album di canzoni, An Other Cup (2006), più di un quarto di secolo per ridefinire il suo ruolo nel mondo dello spettacolo, cinque anni, dopo l’11 settembre, per liberarsi dal fondamentalismo che lo imprigionava e scoprire che la musica è frutto di una purezza creativa che non può dispiacere a Dio» (Videtti). «Sulla copertina del disco ha voluto solo il suo nome, Yusuf, come se “Islam” fosse una connotazione troppo impegnativa, quasi blasfema, da abbinare a un album di musica pop. Un ulteriore segno di distensione? “Ho preferito accorciare il nome affinché il pubblico non avesse pregiudizi di fronte a quello che ascolta, anche se l’islam rimane parte integrante della mia essenza, del mio comportamento, del mio carattere”, precisa» (Videtti). «È stato mio figlio a riportare una chitarra in casa. Quando l’ho imbracciata, ho capito all’istante che avevo un altro lavoro da fare. […] Lui non ha detto nulla: ha messo semplicemente lì lo strumento, e mi sono stupito che le mie dita si ricordassero dove andare» (ad Andrea Laffranchi). Nel 2014, «dopo i suoni pop del cd An Other Cup (2006) e quelli folk del successivo Roadsinger (2009), […] il nuovo album Tell ’Em I’m Gone […] si ispira al blues americano del Delta che fin da giovane appassiona il cantautore, cresciuto artisticamente nei club di Soho, a Londra. Il rabbioso singolo The Devil Came From Kansas inciso con Will Oldham è un classico dei Procol Harum dal loro disco A Salty Dog e la title-track Tell ’Em I’m Gone è un canto di lavoro ferroviario della cultura afroamericana e bianca» (Luca Benedetti). Nel 2017 «il nuovo album The Laughing Apple, che recupera anche alcuni inediti composti nella seconda metà degli anni Sessanta, è a nome di Yusuf/Cat Stevens (lo pseudonimo con cui Steven Demetre Georgiou è diventato famoso non compariva su un disco inedito dal 1978!). Niente più djellaba, niente più kefiah, Yusuf […] si accarezza la barba divertito quando gli faccio notare che ci sono voluti quarant’anni perché Cat e Yusuf si stringessero la mano. “È vero, ma Cat Stevens è solo un’etichetta legata a un periodo musicale della mia vita molto prolifico e profondo. È ovvio che anche per Yusuf fosse un punto di riferimento, perché io vivo in armonia con le canzoni che ho scritto”, dice. […] Mighty Peace, la prima canzone che scrisse a quindici anni e rimasta nel cassetto, è quella che riunisce il percorso spirituale di Cat e Yusuf. Il messaggio sembra essere: non c’è bisogno di cambiar nome o religione per essere una persona migliore. “Sacrosanto! La verità non ha colori, non ha pregiudizi, non ha nazionalità. Di fronte alla verità le esigenze individuali perdono d’importanza. Per questo è fondamentale rispettare la legge: come riusciremmo diversamente a mettere d’accordo due persone che litigano?”» (Videtti). Da ultimo, nel settembre 2020, ha pubblicato l’album Tea for the Tillerman2, «una nuova versione del capolavoro Tea for the Tillerman, […] che sancisce ufficialmente la riconciliazione tra la popstar e l’uomo di fede che il pubblico occidentale non smetterà mai di chiamare Cat Stevens. […] “Semplicemente volevo rimettere in moto quelle emozioni, con i miei vecchi collaboratori, […] tutti lì per la gioia di suonare e di far rivivere quelle canzoni. Spogliate di retorica e nostalgia sono più che mai attuali”» (Videtti) • Nel 2014, soprattutto grazie ai buoni uffici di Art Garfunkel, è stato accolto nella Rock and Roll Hall of Fame. «È stato come un ritorno a casa. Credo che la confraternita musicale abbia aperto le braccia. Per accogliermi di nuovo» • Padre di sei figli (due maschi – uno dei quali morto in età infantile – e quattro femmine), attualmente vive per lo più a Dubai (Emirati Arabi Uniti). «Dubai è il posto che mi sono scelto per vivere una vita da buon musulmano. Quando la mia famiglia ha cominciato a crescere e crescere, non potevo più immaginarmi a Londra: le metropoli occidentali sono tutt’altro che rassicuranti per i giovani. Ho cinque figli. […] Muhammad, il maggiore, si occupa del mio management. Voleva fare il cantautore (ha pubblicato un cd col nome di Yoriyos), poi a venticinque anni ha deciso di ritirarsi» • «La mia famiglia, a esser sincero, non ha mai perso il contatto con Cat Stevens. I ragazzi hanno ascoltato tutti i miei dischi e sanno più cose di me di quante io ne ricordi» • «Ha condannato il terrorismo e da sempre è molto sensibile al problema dei rifugiati. Qual è oggi la sua più grande paura? “La stampa. Il mondo dell’informazione è così deprimente! Dovrebbe essere uno strumento al servizio della verità, dovrebbe… La libertà di stampa è sacrosanta come la libertà d’espressione, purché non si mistifichi o distorca la realtà. Che è quel che regolarmente accade”» (Videtti) • «Quanti di noi hanno sognato con le canzoni di Cat Stevens? Non cer­t­o Kent [il noto critico musicale Nick Kent – ndr], che lo ricorda come il trova­tore hippie e mistico da cameretta diventato il nuovo messia dei sensi­bili. Faceva impazzire le giovani donne borghesi: “Era così sdolci­nato che mi faceva male ai denti. Oggi è noto come un devoto musul­mano, ma ai tempi gli giravano at­torno più donne che a Sinatra”» (Antonio Lodetti) • «Father and Son fu realmente ispirata dai consigli e dalle raccomandazioni che suo padre cercava di darle? “No, la canzone ha poco a che fare con le dinamiche familiari. […] La canzone è piuttosto il frutto di riflessioni personali: dopo aver rischiato la vita per la tubercolosi, nel 1969, me ne stavo tranquillo a scrivere canzoni e cominciai a lavorare a un musical insieme all’attore Nigel Hawthorne; il titolo era Revolussia – doveva poi diventare un film. Alcune canzoni, tra cui Father and Son, raccontavano di un ragazzo che voleva unirsi alla rivoluzione contro i desideri del padre, che lo voleva a lavorare nella fattoria di famiglia. Ovviamente era una metafora contro l’establishment, contro il big father che dice sempre no, espressione del conflitto generazionale. La mia storia personale è diversa. Mio padre non mi ha mai esortato a rallentare e metter su famiglia. Nel 1970 ero già a Los Angeles…”» (Videtti) • «Sono cresciuto con una rigida educazione cattolica. […] È naturale che lo scopo finale della mia vita fosse la redenzione dai peccati. Ma non sapevo come farlo. Tutto sommato è facile vivere da monaco, o da angelo, fino a quando qualcuno non viene a strapparti le piume. Più difficile è vivere in questo mondo e mantenere un equilibrio morale: l’islam mi ha offerto una soluzione per riuscirci. Quando avevo sette anni, chiesi a una suora: “Quando cominciano gli angeli a scrivere i nostri peccati?”. Rispose: “Quando avrai otto anni!”. Ecco, io nella mia vita ho fatto di tutto per rimanere un angelo» • «Penso che molte persone ricordino Cat Stevens come un idealista. Non tutti, ma molti hanno compreso le mie idee attraverso le mie canzoni e sanno che ho sempre cercato la pace, l’amore, la purezza, la felicità. La mia vita ha avuto le sue insidie, ma non ne sono stato travolto. Come i gatti, che, quando cadono, cadono sempre in piedi».