Il Messaggero, 3 agosto 2021
Intervista ad Alessandro Barbero
«Pretendere l’abbattimento di ogni monumento che non corrisponda ai nostri valori attuali, è infantile. Aggredire o distruggere pezzi del passato, anche quando lo si fa con le migliori intenzioni dell’eguaglianza e dell’antirazzismo, è un atto arrogante. La storia non ha bisogno di censurare niente». Lo storico più ricercato dai lettori, Alessandro Barbero, ha una posizione chiara a proposito del dibattito scaturito dall’ostracismo della Cancel culture che dall’America tocca l’Europa.
L’ultimo romanzo di Barbero, Alabama, risale alla radice delle questioni collegate, esplorando e interrogando la memoria dell’ex combattente sudista Dick Stanton, ormai centenario, attraverso lo sguardo di una giovane ricercatrice interessata, negli anni Quaranta del Novecento, a ricostruire con il testimone l’eccidio efferato di neri in una battaglia della Guerra civile americana. Il linguaggio e il racconto del reduce raffigurano il volto di una società quasi feudale, dall’élite dei grandi proprietari terrieri ai bianchi poveri, che ieri nel sistema della schiavitù e oggi nel razzismo trovano una consolazione alla propria marginalità, evocandone i valori distorti e l’irrisolto suprematismo bianco.
Scavando nell’infanzia di Barbero, si rintraccia la passione per la storia militare poi trasformata nello studio del conflitto spaventoso che costò seicentomila morti, più di tutte le guerre statunitensi del Novecento: «Da bambino leggevo Il Corriere dei piccoli, che pubblicò una grande tavola con i soldatini e le uniformi della battaglia di Gettysburg. Avevo otto anni e mi appassionai, poi ho ricomprato quel numero».
Sellerio le ha chiesto un romanzo che toccasse l’attualità del razzismo?
«No, è stato un cantiere aperto per anni con il piacere di lavorarci senza fretta. Il problema razziale riesploso oggi e le statue dei generali sudisti che si vorrebbero abbattere non appartenevano all’idea di narrare l’anima dell’America profonda. È divenuto attuale per la gioia dell’ufficio stampa».
Che cosa c’entra Aldo Busi?
«Per una collana di Frassinelli mi propose la traduzione di uno dei piccoli classici della letteratura americana sulla guerra civile. Tradurre Il segno rosso del coraggio di Stephen Crane ha influito non solo sulla mia scelta di ambientare Alabama nella battaglia più romantica, quella di Chancellorsville, l’ultima grande vittoria del generale Lee».
Perché si è appassionato alla storia dalla prospettiva degli sconfitti?
«La vittoria è passeggera, mentre la sconfitta lacera dentro e segna il presente».
Che cosa comporta confrontarsi con la memorialistica?
«Facendo lo storico, mi sono accorto di quanto la lettura delle testimonianze dirette sia spesso molto più interessante dei libri che scriviamo sul passato».
Quali tratti comuni emergono dalle voci dei combattenti sudisti come il suo Dick Stanton?
«La convinzione profondissima di avere moralmente ragione che si deve misurare con lo sconvolgimento della sconfitta. Mi ha colpito la religiosità protestante, biblica, primitiva e guerrigliera degli eserciti del Sud che si è accentuata durante la guerra civile. Ancora oggi la si respira nel Sud della Bible Belt, la patria dei predicatori protestanti più fanatici».
Sentivano di rappresentare il sogno americano?
«Nello stesso modo in cui oggi lo intendono coloro che rivendicano il diritto di avere un fucile mitragliatore in casa. Questa società arretrata, contadina e schiavista era imbevuta del sogno americano che credeva di incarnare evidentemente in modo distorto. Sono andati in guerra, perché nessun governo a Washington potesse intaccare quelli che consideravano il diritto e la libertà di possedere gli schiavi».
Lo schiavismo è il peccato originale irrisolto?
«La prima contraddizione è che i principali responsabili e beneficiari del sistema schiavistico erano tra i fondatori degli Stati Uniti, da George Washington al Presidente Jefferson».
Che cosa è restato di una società sconfitta militarmente e culturalmente?
«Dopo i cinque anni di guerra (1861-1865) la disfatta, la liberazione dei neri e il decennio della ricostruzione hanno creato per sempre un inasprimento del razzismo e dell’odio violento del Sud».
Il Sud ha avuto grandi scrittori, Faulkner su tutti. Quanto hanno inciso insieme al cinema?
«I film e la letteratura sono riusciti a nascondere che il razzismo fosse tornato forse peggiore di prima. Traspariva la percezione che in fondo era stata una società nobile, cavalleresca, con la mitologia della causa persa fino a Via col Vento. Dalla fine dell’Ottocento agli anni Cinquanta, il Sud ha vinto la guerra della propaganda».
Il Movimento per i diritti civili ha incrinato la narrazione?
«Martin Luther King Jr. ha dimostrato come l’apparente riconciliazione tra il Nord e il Sud si fosse compiuta sulla pelle dei neri rimessi in schiavitù e dimenticati».
La Guerra civile americana interroga la memoria condivisa invocata spesso in Italia.
«È una costruzione traballante, non la si può fare. Per molto tempo, guardando agli Stati Uniti, pensavo a come avessero saputo ricucire questa ferita gravissima, mentre ci scanniamo ancora sull’Unità d’Italia. In realtà avevano escluso la memoria degli afroamericani».
Si possono sistemare i torti della storia?
«Concentrandosi su uno specifico torto da raddrizzare, senza una conoscenza organica del contesto, c’è il rischio di essere ossessivi e talvolta in malafede».
A chi pensa?
«Per esempio Giampaolo Pansa, nel raccontare le violenze commesse dai partigiani, pur non inventando, rinunciò a contestualizzarle. Scegliere di isolarle in un filone di pubblicazioni ha arrecato molto danno alla nostra comprensione di che cosa siano stati il fascismo, la Resistenza, la guerra civile».
L’Italia si dice la verità sul razzismo nel giardino di casa?
«Una volta nessuno diceva gli italiani sono razzisti. Il Paese ha avallato il mito degli italiani brava gente. Il nostro colonialismo non è stato né buono, né civilizzatore, e non dimentichiamo mai le leggi razziali».