Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  agosto 02 Lunedì calendario

Biografia di Irma Testa raccontata da lei stessa

Irma Testa, prova fastidio quando sente dire che la sua è una storia prima umana e poi sportiva?
«Niente affatto. Perché è vero. Credo che la mia sia una storia personale di riscatto e rivincita verso le condizioni difficili dalle quali sono partita». 
Cosa significa crescere in uno dei quartieri più difficili di Torre Annunziata? 
«Non è una vita facile, anche se da piccola non te ne rendi conto. Non è semplice capire la mancanza di benessere e di sport che ti impedisce di coltivare qualunque ambizione. La mia adolescenza stava scivolando via così. Come quelle di tanti altri, in posti così complicati». 
Quando ha cominciato a capire? 
«Con l’ingresso nella palestra del maestro Lucio Zurlo, uno che non insegna solo boxe, ma tira via i ragazzi dalla strada. Da almeno quarant’anni. Una persona cui devo tutto, che meriterebbe di essere conosciuta, molto più di me». 
Davvero le ha insegnato prima l’italiano e poi a fare i guantoni? 
«Non sapevo parlare bene. Lo facevo con difficoltà, ero come bloccata, ero una bambina che si esprimeva con uno strano impasto di dialetto e di italiano». 
A scuola come andava?
«Male, e malvolentieri. Mi ci costringeva mia madre. A casa nostra ‘oggi non ci ho voglia’ non esisteva. Sono stata costretta a studiare, poco, perché altrimenti mamma si arrabbiava». 
È stata dura andare via da casa a soli quattordici anni? 
«Abbastanza. All’inizio tutto sembrava bello e nuovo, l’avventura. Poi è arrivata la malinconia. Ogni tanto la sento ancora». 
Cos’altro ha imparato in palestra? 
«A rispettare le regole e le persone. A capire cosa fosse giusto e sbagliato, e quali erano le cose giuste in cui credere. Per questo considero Zurlo un maestro prima di vita e poi di pugilato». 
Prima non lo faceva?
«Sono cresciuta in strada. Giocavo, e facevo molti errori. L’ambiente conta tanto. Soprattutto da ragazza tendi ad aggregarti alla massa, e se gli altri fanno un percorso sbagliato, tu li segui. Io lo facevo, perché avevo paura di essere esclusa. È sempre stata quella la mia paura più grande». 
Pugile o pugilessa? 
«Per me pugile va più che bene. Ogni volta che sento prima dei miei match la musica di Rocky, realizzo che nell’immaginario di tutti non esiste una donna che fa boxe. Ma sono anni che in questo sport le medaglie importanti alla Federazione le portiamo tutte noi. Per questo sono orgogliosa di questa medaglia. So di avere gettato un seme per il cambiamento. Ci vorrà ancora del tempo. Ma alla fine diventerà uno sport come gli altri. Non femminile o maschile. Uno sport, e basta». 
Che cosa rappresenta la boxe per lei? 
«Tutto. L’ho scoperta perché la faceva mia sorella. Era la sua passione. Lucia è il mio idolo, il mio esempio. Abbiamo un legame viscerale, che ci fa vivere in simbiosi. Solo lei può capire, perché sa da dove veniamo. E lei mi ha fatto il regalo più grande, la boxe, che viene prima di tutto». 
Anche dell’amore? 
«Lo sport occupa troppo spazio nella mia vita. È qualcosa che ho realizzato, anche con un certo dolore. L’amore mi toglie energie. Ho avuto alcune esperienze. Ci ho provato, non è andata bene. Ma non è stata colpa di chi stava con me, è un problema mio». 
Come reagisce alle frequenti domande sulla sua vita privata? 
«Capisco la curiosità. Ma non ho neppure io delle risposte precise. Sono single. Non ho tempo di stare dietro ai miei problemi di cuore. È brutto quando non riesci a far capire al partner di turno che i tuoi obiettivi richiedono dedizione assoluta e concentrazione. Non riesco a fare spazio ad altre passioni. Ma prima o poi troverò la mia strada». 
Irma Testa è un esempio per tutte le donne? 
«Non credo di essere così importante. Ma penso che la mia sia una storia di emancipazione. Sono una ragazza uscita da un contesto difficile. Non mi definisco femminista, perché credo che ci siano persone che difendono la causa delle donne meglio di me. Ma sicuramente mi sento una portabandiera per tutte le donne che lottano in un mondo maschile contro gli stereotipi e i pregiudizi, di qualunque genere». 
Dopo il fallimento di Rio 2016 stava per smettere?
«Sì. Mi ci sono voluti mesi per riprendermi. Ma sbagliavo, ancora una volta. La delusione serve per ricominciare. L’esperienza negativa ti fornisce una mappa preziosa, con tutti gli elementi per capire come non vanno fatte le cose. Io compresi che dovevo comportarmi da vera atleta. Il mio percorso per Tokyo è cominciato così». 
Simone Biles dimostra che esiste un male oscuro degli atleti? 
«Vita dura, tanti sacrifici, e nel suo caso gli occhi del mondo puntati addosso. La capisco. Lei è un’icona dello sport americano. Ma è anche una ragazza. Non vorrei mai trovarmi nei suoi panni». 
Cosa ricorderà di questi Giochi? 
«Al centro del villaggio olimpico c’è una specie di clinica dove tutti gli atleti sono obbligati a fare il test ogni giorno. Una cosa da film di fantascienza. Come questo periodo brutto che tutto il mondo sta vivendo. E poi ricorderò la mia gioia, anche se non so quanto durerà. Me la sono meritata».