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 2021  agosto 02 Lunedì calendario

Biografia di Lamont Marcell Jacobs

Fabio Tonacci, la Repubblica
Lui vince, gli altri gli corrono dietro. Lui durante il riscaldamento balla, gli altri contraggono i muscoli del collo. Lui alla falsa partenza dell’inglese Hughes sorride, gli altri hanno gli occhi allucinati. Lui si chiama Lamont Marcell Jacobs, ma il nome americano non inganni nessuno, neanche parla inglese: è l’italiano più veloce del mondo. Quarantacinque passi dentro la Storia. Come lui nessuno mai. Una medaglia d’oro conquistata sul pianeta dei 100 metri, dove fino ad oggi eravamo ospiti esotici. Non più. Non con Jacobs. Mister 9 secondi e 80. Record europeo. Velocità di punta rilevata: 43 chilometri all’ora. Provate a prenderlo, se ci riuscite.
Nel cielo dell’Olympic Stadium di Tokyo sono nate due stelle che brillano di luce azzurra. Marcell Jacobs e Gianmarco Tamberi sono felici come bambini, si abbracciano, si spintonano, si nascondono sotto una bandiera tricolore e si confessano: «Ancora non ci credo, ci metto una settimana a realizzare», «ma hai capito cosa abbiamo fatto?», «quando ho visto il tuo oro ho detto porca tr...», «che si fa stasera, quindi? », sghignazzano i Fratelli d’Italia davanti alle tv straniere, prima di sparire sotto un tricolore. Sono meravigliosi, giovani e fortissimi. Poco dopo, Malagò porge a Jacobs il telefonino e gli passa Mario Draghi che si complimenta con lui.
«Una gara tecnicamente perfetta, fa un bell’effetto vincere i Giochi dopo Usain Bolt», dice il lampo made in Italy, appena riesce a scrollarsi di dosso il tarantolato Tamberi. Jacobs è il figlio del vento che il nostro Paese aspettava da sempre. E cosa importa se sulla carta di identità c’è scritto che è nato a El Paso, Texas, il 26 settembre 1994? Il vento lo ha portato qui da noi, a Desenzano del Garda. L’ha tirato su Viviana Masini da sola, con tanti sacrifici, perché il marine degli Stati Uniti Lamont Marcell Jacobs (si chiama come il figlio), già in servizio alla caserma Ederle di Vicenza, li ha abbandonati un mese dopo la nascita per andare in Corea del Sud. Ha scritto un messaggio al figlio prima della gara: «Puoi farcela, siamo con te». Quasi ventisette anni dopo, in una notte giapponese afosa e splendida, il cerchio si chiude.
Le prime parole del nuovo campione olimpico sono state per quel padre ritrovato. «Un anno fa la mia mental coach mi ha detto una cosa: se volevo correre più forte, dovevo recuperare il rapporto con lui. Non lo avevo mai visto né ci avevo mai parlato. L’ho fatto. E il riavvicinamento a lui mi ha spinto a dare ancora di più per questa Olimpiade».
Come nei libri migliori, che raccontano sempre, in qualche modo, la ricerca della figura paterna. Il finale è lieto. Ora Marcell di padri ne ha due. Il marine che si chiama come lui e l’allenatore ex triplista azzurro Paolo Camossi. Nel ventre labirintico dello stadio, Camossi ci racconta il dettaglio più incredibile della costruzione di una leggenda chiamata Marcell Jacobs. Se è diventato il re dello sprint è grazie a due salti sbagliati. E a una chiacchierata notturna in un hotel di Glasgow.
La scena è questa: Campionati Europei indoor del 2019, Jacobs compete nel lungo. Arriva da un 8.48 che ha lasciato tutti a bocca aperta. «In gara fa due salti infiniti, da 8.50, ma entrambi nulli. Il terzo è disastroso», ricorda Camossi. «La sera trovo Marcell in albergo seduto in corridoio. Piange, è arrabbiato. Forse, gli dico io, c’è qualcosa che non funziona con il lungo, non quagliamo. Sei veloce, puntiamo sulla velocità... Se non ci fossero stati quei due salti nulli, non saremmo qui». Invece ci sono, ci siamo tutti.
A cercare di scoprire cosa è cambiato nella vita e nella preparazione del 26enne dal corpo tatuatissimo («dopo questa vittoria, me ne farò un altro...») che lo ha fatto migliorare così tanto e in così poco tempo. All’inizio dell’anno a Torun, nonostante le difficoltà della pandemia («pur di fare una corsa, ero disposto ad andare a prendere a casa i giudici!»), fa la miglior prestazione stagionale sui 60 metri indoor. A Tokyo è arrivato con un personale di 9.95 (già record italiano), se ne va con l’oro e un tempo abbassato di 15 centesimi. «È l’esito di un percorso iniziato tre anni fa. Mi sono trasferito a Roma e abbiamo creato un team perfetto con la mental coach, il fisioterapista, il chiropratico, il nutrizionista». Il corpore è sano, e si vede. Però anche la mens ha bisogno di cure. Alle gambe di Jacobs provvede Camossi: lo fa allenare 12 volte alla settimana di inverno, 7 d’estate. «Non riusciamo a fare tutto il programma, perché gli infortuni patiti con il salto in lungo non glielo permettono». Alla testa, invece, ci pensa la psicologa sportiva Nicoletta Romanazzi. «Prima della finale gli ho detto solo due cose: respira e rimani morbido». Marcell ha respirato, e come Eolo ha spazzato via gli avversari. Sui blocchi di partenza ha fatto un patto col proprio corpo. «Gli dicevo: ti prego, dammi l’ultima chance e ti assicuro che poi ti lascio in pace». Il corpo ha risposto. Il sogno che Marcell aveva da bambino si è realizzato.
A casa lo aspettano i tre figli Jeremy, avuto da una precedente relazione, Anthony e Megan con la fidanzata Nicole Daza. Con Gimbo Tamberi, sarà ricevuto da Mattarella e Draghi. «L’Italia è orgogliosa di voi», dice il premier. È tutto vero, Jacobs. Rimani morbido e respira. E poi corri, ragazzo. Corri.


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Gaia Piccardi, Corriere della Sera
De-sen-za-no-sul-gar-da. Ora che arriva davanti ai microfoni della Bbc, avendo distribuito pensieri, parole e sorrisi dalla Cnn ad Al Jazeera, lo spelling di Marcell Jacobs si è fatto più preciso. «Pure l’accento è migliorato strada facendo» scherza l’impunito, che quando telefona a papà Lamont negli Usa si fa aiutare per l’inglese dal traduttore di google.
Si fa fatica a distinguere sotto i panni del campione olimpico dei 100 il lunghista talentuoso ma fragile, costretto a scegliere tra salti e velocità per non rischiare di farsi troppo spesso male. Ed è irriconoscibile quel primo abbozzo di sprinter che perdeva il confronto diretto con Filippo Tortu, l’altro italiano in semifinale ieri a Tokyo, e poi trovava una scusa buona per non prendersi la responsabilità. «Ho incontrato una brava mental coach, Nicoletta Romanazzi, che è entrata nel mio team insieme al mio storico allenatore Paolo Camossi — racconta —. Con lei ho accettato di lavorare in profondità sulle mie paure e sui miei fantasmi. Non è stato facile: c’è una parte intima che non vogliamo mostrare nemmeno a noi stessi. Però imparo in fretta. Il lavoro psicologico è iniziato a settembre dell’anno scorso e in sei mesi ho ottenuto un oro europeo indoor, il 9”95 di Savona, i tre record italiani ai Giochi e l’oro olimpico in 9”80». Lo dice così, come se avesse timbrato il cartellino e infatti Jacobs sui blocchi aveva l’espressione più serena tra gli otto finalisti, ha corso rilassato e gli altri contratti, un raggio laser dritto al bersaglio. «Non doveva andare così nemmeno nei miei sogni più sfrenati — ride l’azzurro, appena seduto sul trono di Usain Bolt —. Sapevo di essere in condizione, sono rimasto concentrato su me stesso. Dei rivali mi sono accorto solo al traguardo».
La trasformazione dell’atleta ha seguito, di riflesso, quella dell’uomo. Il lavoro su di sé con la psicologa ha sbloccato ricordi rimossi e liberato rabbia repressa, adesso Marcell ha un rapporto con il padre che lo lasciò a El Paso a pochi mesi per andare in Corea con l’Us Army. «A 18 mesi ero in Italia, i miei figli sono nati qui. Mi sento italiano in ogni cellula del mio corpo. Mio padre, da bambino, non lo ricordo. Dal momento in cui con mamma siamo rientrati dal Texas, è cominciata la nostra personalissima sfida a due. A scuola ero in difficoltà. Disegna la tua famiglia, mi diceva la maestra: io avevo solo mia madre da disegnare e ci soffrivo. Chi è tuo papà, mi chiedevano gli amici: non esiste, rispondevo, so a malapena che porto il suo nome. Per anni ho alzato un muro. E quando mio padre provava a contattarmi, me ne fregavo».
Oggi che il canale con Lamont è riaperto, anche il dialogo di Marcell con la velocità, il mestiere che si è scelto, è più fluido. «È incredibile la potenza dell’energia che si muove quando abbatti un muro. Lo odiavo per essere scomparso, ho ribaltato la prospettiva: mi ha dato la vita, muscoli pazzeschi, la velocità. L’ho giudicato senza sapere nulla di lui. Prima se una gara non andava bene davo la colpa agli altri, alla sfortuna, al meteo. Adesso ho capito che i risultati dipendono solo dal lavoro e dall’impegno».
L’oro nei 100 metri all’Olimpiade cambia la spedizione dell’Italia, la storia dell’atletica, la sua esistenza. «È il mio anno — dice non troppo ad alta voce —, i record possono anche essere battuti ma la medaglia non me la toglie nessuno ed è destinata al muro del salotto di casa, dove si possa vedere bene». Da piccolo voleva diventare archeologo («Mi piacevano i fossili») o astronauta, ammira Mennea e Bolt, cui adesso lo paragonano. Ma insomma come hai fatto, Marcell? «Mi sono chiesto: ma cosa hanno gli altri che io non ho? Niente, mi sono risposto».


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Oscar Eleni, il Giornale
Oltre la siepe del silenzio l’urlo liberatorio di Lamont Marcell Jacobs junior, figlio di un marine del Texas in congedo e di una leonessa che dopo la separazione dal marito lo ha portato a due anni a Desenzano del Garda lasciandolo spesso ai nonni che lo aiutavano a sorridere e a rialzarsi quando cadeva nel lungo cortile in discesa e negli attimi fra sogno e realtà, medaglia d’oro e record europeo sui 100 metri battuto due volte, lui ha ricordato proprio questo: il sogno del bambino che voleva vincere l’olimpiade e il nonno Osvaldo, scomparso questo inverno, che lo incitava e lo aiutava a crederci.
Un tipo speciale, se fosse rimasto ad El Paso magari, avrebbe fatto il marine come suo padre, cui ha ricominciato a parlare dopo tanto tempo, anche se le conversazioni fra l’Italia e la Florida, dove oggi vive Jacobs senior, sono sempre difficili, per la lingua, soprattutto più che per il traumatico distacco, perché il texano non è proprio inglese come lo studi qui.
Per fortuna il destino ha scritto per lui pagine diverse con una vita dove nessuno gli ha regalato niente: padre a 19 anni di Jeremy, con una compagna poi lasciata presto, altri due figli con la sua vera spalla di oggi, un altro Jeremy e Megan, sempre alla ricerca del porto di quiete: da Desenzano a Gorizia dove viveva il suo allenatore, un triplista fantasioso e di talento come Paolo Camossi, geniale in pedana, una generazione con cui passavi volentieri la notte anche al bar, uno magari non ossessionate sugli uomini con i muscoli alla seta come piaceva al professor Vittori facendosi inseguire non soltanto da Mennea, il fratello Pietro che con sorella Sara Simeoni illuminava gli aurunci formiani, ma abile nello scoprire nel saltatore Jacobs, che si faceva male troppo spesso quando prometteva di essere un lunghista di qualità, l’uomo che da ieri è storia vera dello sport.
Lui, per la verità è già da un paio d’anni il velocista che sfonda i muri, anche se anticipato nell’andare sotto i 10 secondi dal più elegante Filippo Tortu che certo, fino a ieri, era più conosciuto e vezzeggiato. Ai tempi del suo titolo europeo indoor in Polonia, del primato italiano a Savona quando si è confidato con Giorgio Cimbrico, mente eletta della chiesa senza confini dell’atletica, fu divertente il racconto che gli fece della vita, di El Paso, del padre, di Camossi, credendo ciecamente al nostro faro genovese quando scrive che Marcello conosce tutto di El Paso, delle congiunzioni astrali tipo quelle sue a Tokio, quando nel 1996 Obadele Thompson, corridore delle Barbados, terzo marito di Marion Jones la divina, corse i 100 in 969 con un tornado alle spalle.
Dicevamo di Camossi e delle sue lezioni di vita, ma anche delle lacrime per i primati di questo campione che insieme a lui ha accettato di cambiare tutto, orizzonti, vita, spostandosi due anni fa a Roma, mettendo insieme una vera squadra al servizio del talento. Fisioterapia, lavoro, studio, ma anche giornate per liberare la mente e l’anima con Nicoletta Romanazzi che è diventata la sua allenatrice della mente, insomma la psicologa.
I campioni vivono in mezzo a baraonde strane. Lui, ad esempio ha camminato nell’ombra di Tortu, primo italiano sotto i 10 secondi, soffrendolo come ha confessato a san Giorgio, ma rimanendo sempre in rapporti cordiali, cosa non facile fra gente che vive sui nervi direbbero Berruti e Ottolina, i grandi velocisti di ieri, da Pavoni a Tilli, da Carletto Monti al Toetti, da Preatoni a Giani. Speriamo siano cordiali nel passarsi il testimone in staffetta, speriamo che la festa sia per tutti, in modo che anche il quartetto possa ragionare come ha fatto Jacobs cancellando dalla scacchiera un avversario alla volta: vedeva volare Bromell e gli ha detto arrivederci, partendo dagli stessi tuoni nelle gare indoor, quando si è impantanato nella prima semifinale. Studiava le volate scomposte di Simbine scoprendo che poteva fare meglio di lui e così è stato lasciandolo giù dal podio.
Insomma, quei 45 passi e mezzo che lo hanno lanciato nella storia non sono arrivati per caso per questo poliziotto di 1 metro e 87, 79 chili con muscoli ben distribuiti, uno che nella seconda vita atletica, nel 2017 saltava oltre gli 8 metri in lungo, ci ha lavorato per cambiare tutto, senza mai sentirsi solo perché nel lavoro era famiglia, ha sudato e aspettato. Ora è il principe di questa zolla chiamata giardino dei più veloci nel mondo.