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 2021  agosto 01 Domenica calendario

Il ritorno del terrore talebano in Afghanistan

«Sono molto preoccupata. Non ho idea di cosa accadrà in settembre. Di come faremo a pagare le spese. Non riesco a immaginare cosa ne sarà delle donne che lavorano per il nostro progetto». Zolaykha Sherzad non si dà pace. Ripete. «Questa è una guerra che non appartiene a noi afghani. Il loro islam estremo non è il nostro islam». Tornata in Afghanistan dopo la caduta dei Talebani, questa intraprendente designer, che vive tra New York e Kabul, ha fondato nella capitale afghana Zarif Design, un’impresa sociale, una sorta di “Casa di moda etica” con una sede non profit a New York. Era il 2005. «Volevo contribuire all’emancipazione delle donne, farle uscire di casa, insegnare loro un lavoro, e indirizzarle all’indipendenza economica», spiega Zolaykha. 
Per i Talebani, che avevano costretto tutte le donne nella prigione del burqa affinché nulla trapelasse delle loro forme, l’attività di chi, come Zolaykha realizza capi che ne esaltano la femminilità, pur nel rispetto delle tradizioni, è vista come il fumo negli occhi. «Oggi lavorano per noi 35-40 ricamatrici e 20 sarti. Donne di ogni estrazione sociale e di ogni etnia. Grazie ai nostri corsi, imparano un mestiere, e ricevono anche una paga come apprendiste». 
Le cose tuttavia potrebbero presto cambiare. In peggio. Nei mesi in cui le truppe straniere stanno completando il ritiro dal Paese, i Talebani hanno dato via a un’offensiva quasi inarrestabile. Oggi amministrano oltre il 50% dei distretti afghani, lasciando al Governo (che controlla effettivamente il 20% del territorio) le grandi città e poco altro. Le altre aree sono contese. Da febbraio a luglio gli insorti hanno conquistato più territori di quanto avessero fatto negli ultimi 18 anni. Herat, la terza città del Paese, è accerchiata. A Kandahar, Kunduz, Lashkar Gah, la linea del fronte ha toccato le periferie. Ieri il rappresentante speciale dell’Ue a Kabul, Thomas Niklasson, in un’intervista alla tv afghana Ariana News ha spiegato che l’Europa «non riconoscerà i Talebani se prenderanno il potere con la forza». Cosa ne sarà quindi delle circa 300 Organizzazioni non governative (Ong), soprattutto di quelle impegnate a emancipare le donne, a dare un’istruzione alle bambine, ma anche di quelle attive nell’assistenza umanitaria e nell’emergenza? Cosa sarà della cooperazione internazionale, e dei suoi importanti progetti infrastrutturali? 
Presidente della Commissione Indipendente Afghana per i Diritti Umani, Sima Samar è stata più volte a un passo del Nobel per la pace. Al telefono non nasconde la preoccupazione. «Le Ong guidate dalle donne sono quelle che si trovano in maggior pericolo. Nei villaggi la paura di aggressioni da parte dei Talebani è diffusa. Alcune hanno preferito chiudere. Altre stanno subendo forti limitazioni. Ma sappiamo poco di ciò che sta succedendo nelle aree prese dai Talebani. A volte distruggono i mezzi di comunicazione».
Charles Davy, direttore di Afghanaid, una grande Ong attiva in molte province, impegnata in numerosi progetti (anche nel settore idrico), preferisce la cautela: «Abbiamo attività in aree cadute sotto il controllo dei Talebani. Per ora lavoriamo. In quei luoghi spesso il nostro staff di donne deve essere accompagnato da un membro della famiglia, devono vestire in modo più consono alla tradizione, ma dipende dalla realtà locale. Non so ancora cosa ci aspetterà». Un lavoratore di un’altra Ong, che ha mantenuto l’anonimato, ha parlato di severe limitazioni. 
A parole i Talebani, che hanno promesso un ambiente sicuro per gli operatori umanitari, sostengono di voler un accordo di pace con il nemico, il Governo di Kabul. Nel mentre, continuano, con successo, le operazioni militari. Forse vogliono presentarsi ai negoziati da un punto di forza, e costringere la controparte a dar vita a un Governo islamico più vicino alla loro ideologia. Vi è tuttavia un grande ostacolo che si frappone tra gli obiettivi dei Talebani e la loro realizzazione. L’Afghanistan di oggi non è più quello di 20 anni fa, quando gli “studenti del Corano” lo avevano riportato indietro ai tempi del Medio Evo. Non è conciliabile con la loro ideologia, il cui perno è la coerenza e l’osservanza di norme tanto anacronistiche quanto violente. Grazie soprattutto alla cooperazione internazionale e alle Ong, impegnate in moltissimi progetti, i progressi sono stati sorprendenti. La globalizzazione è arrivata anche qui. La penetrazione degli smartphone è arrivata al 60%, l’alfabetizzazione non è nemmeno paragonabile rispetto a 21 anni fa, quando alle bambine non era permesso andare a scuola. Kabul è ora una metropoli di 5 milioni di abitanti. Niente a che vedere con la polverosa città piena di macerie e mercatini ambulanti, con le sue case in fango, dei primi anni dopo la caduta dei Talebani. La sua metamorfosi riflette in parte anche quella di altre grandi città, dove oggi le forze governative hanno preferito ripiegare per difenderle meglio, lasciando le zone rurali e le montagne impervie in mano agli insorti. Difficile che i Talebani riescano a conquistarle, ancor più difficile che riescano a governarle. Non hanno i mezzi. E non hanno le risorse umane.
La situazione per le Ong impegnate in attività di emergenza sembra meno a rischio, anche se le crescenti ostilità ne compromettono in parte il funzionamento. Presente in Afghanistan già durante il “regno” dei Talebani, Emergency è una realtà consolidata, anche in aree “calde”, come la provincia dell’Helmand, dove nel capolugo Lashkar Gah porta avanti una clinica divenuta un punto di riferimento. Per tutti. «A Lashkar Gah la situazione è incerta. Ci sono intensi combattimenti intorno alla città da diversi giorni, così come nel resto di tutta la Provincia», ci racconta Marco Puntin, direttore di Emergency per l’Afghanistan.
Anche Intersos, attiva sul fronte umanitario/assistenziale, opera in zone calde dell’Afghanistan. Tra cui Kandahar,la seconda città afghana, le cui aride campagne sono sempre state la roccaforte del Talebani. «Sono tornato da una visita a Kandahar – ci racconta Matteo Brunelli, vicedirettore regionale Intersos per Yemen. Libia e Afghanistan. – La linea del fronte è in prossimità della zona urbana. Dal nostro ufficio udiamo il rumore delle esplosioni». Brunelli non nasconde le difficoltà: «Abbiamo forti limitazioni nella sicurezza e nello spostamento del personale internazionale, soprattutto in questa fase di conflitto, ma anche problemi per la Pandemia di Covid».
Sul fronte bellico la situazione il numero delle vittime civili nei primi sei mesi è il più alto dal 2000. 
«Seguiamo con attenzione l’evolversi della situazione – continua il direttore di Afghanaid –. Preferiamo non sbilanciarci, ma non si può escludere una guerra civile. Ho la sensazione che, anche in presenza di un accordo tra afghani, che è la soluzione preferibile, le donne in particolare vedranno una decisa riduzione delle conquiste fatte negli ultimi 20 anni. Sono preoccupato». 
Preoccupati lo sono in tanti, eppure decisi a restare. Dalla cooperazione alle Ong. «Diverse zone del sud dell’Afghanistan, sotto controllo dei Talebani, sono le stesse aree dove registriamo i maggiori bisogni umanitari. Dove le organizzazioni umanitarie, tra cui Intersos, operano per garantire servizi essenziali e assistenza alla popolazione», spiega Brunelli. «È più che mai necessaria la nostra presenza a Lashkar Gah. Dato l’incremento dei feriti di guerra a cui stiamo assistendo è difficile pensare a una riduzione degli scontri nei prossimi mesi. Da sempre la missione di Emergency è curare tutti, senza discriminazioni», precisa Marco Puntin. «Afghanaid vuole restare – conclude Charles Davy -. Come moltissime altre Ong. Opereremo in diversi modi a seconda delle circostanze. Dovremo trovare dei compromessi». Lo stesso precisa Sima Samar. Una speranza per gli afghani. Eppure la sensazione è che, comunque vada, l’Afghanistan di domani sarà un passo indietro rispetto a quello di oggi. Soprattutto per chi, meritatamente, aveva assaporato la libertà: le coraggiose donne afghane.