Specchio, 1 agosto 2021
I 40 anni di Roger Federer
8 agosto è il compleanno di Roger Federer e, purtroppo, stavolta il Genio se lo giocherà sullo 0-40. Zero come i titoli vinti negli scorsi 22 mesi: l’ultimo di 103, complici la pandemia, due operazioni al ginocchio e un anno sabbatico, risale allo Swiss indoor del 2019, nella sua Basilea. Quaranta come le candeline che Roger spegnerà fra una settimana esatta.
A Wimbledon, lo Slam che gli ha fruttato otto di venti tornei dello Slam, sperava almeno di imitare Ken Rosewall, l’unico nell’era Open capace di arrivare alla finale dei Championships a 39 anni. Ci credeva, ci contava. Nel tentativo di presentarsi in forma nel Giardino, aveva digerito le sconfitte amare di Doha contro il taciturno georgiano Basilashvili e di Ginevra contro il commesso tennista Andujar. Il miracolo, la liquefazione dell’età, però non è avvenuto. Al posto di una sognata resurrezione è arrivata la più dolorosa delle cadute, una batosta in tre set - come a Church Road non gli capitava dal 2002 - contro il polacco Hurkacz, incassando anche un 6-0. E questo, sui sacri praticelli, non gli era successo mai.
«Mi piacerebbe giocare ancora a Wimbledon», ha ammesso, con lo sguardo bastonato dei suoi (pochi) giorni bui. «Ma alla mia età non puoi essere sicuro di nulla». Specie se ti accorgi che fai fatica non solo a vincere uno Slam, non solo ad alzare una qualsiasi coppa, ma anche a portare a casa un singolo match. «In campo mi sentivo sempre al limite e non è una situazione a cui sono abituato». La rinuncia a Tokyo, poi, ha avuto un significato simbolico. L’oro olimpico è l’unico grande successo che gli manca(va), rinunciare all’ultima chance di colmare il vuoto nella bacheca della villona di Zurigo significa ammettere che anche la sua carriera si chiuderà con un quantum di incompiutezza. Oltre che deludere lo sponsor nipponico Uniqlo, con cui ha firmato un contratto decennale da 300 milioni di euro e che legittimamente sperava di esibirlo, se non altro come gloriosa reliquia. Insomma, come direbbe Yogi Berra, il futuro non è più quello di un tempo.
Poi ci si mettono anche i carissimi nemici, Rafa Nadal e Novak Djokovic. Un tormento in campo negli ultimi dieci, dodici anni, e ora anche in prospettiva nel libro dei record. Federer pensava di esserseli presi tutti o quasi - gli manca quello dei tornei vinti da professionista, 109, che appartiene a Jimbo Connors - ma la remuntada del Cannibale e del Djoker è stata furibonda. Roger in compenso sembra piantato come Bitossi sul rettilineo di Gap nel ’72. Tutti e tre sono a quota 20 Slam, ma con rispettivamente cinque e sei anni di meno, Rafa e Nole hanno messo da tempo la freccia. Tutti e due sono in vantaggio nei confronti diretti, Djokovic è addirittura in corsa per il Grande Slam, impresa titanica che chiuderebbe il discorso su chi sia il GOAT, il Più Grande di sempre nel tennis.
Parliamo ovviamente solo di statistiche, di numeri, perché la grandezza di Federer risiede anche, e forse soprattutto, altrove.
Nello stile unico, nell’emozione collettiva - razionalmente inspiegabile, a tratti mistica - che sanno procurare le sue giocate. Da Paolo Bertolucci a Gene Gnocchi, dalla direttrice di Vogue Anne Wintour a Thierry Henry, da Wayne Gretzky a Tiger Woods, da Kate Winslet a Bradley Cooper, da Will Smith a Bill Gates, che peraltro ha anche avuto l’onore di giocare con lui in doppio e comparirgli a fianco in uno spot: tutti pazzi per Roger. Conosco di persona un monaco e biblista molto erudito (Ludwig Monti, per anni braccio destro di Enzo Bianchi a Bose) autore di ponderosissimi volumi sui Salmi, che per ammirarlo dal vivo sul Centre Court si è sottoposto alla laicissima penitenza della Queue, trascorrendo due notti in tenda sui saliscendi di Southfields e indossando, al posto del saio regolamentare, una maglietta griffata RF. Quest’anno aveva già acquistato i biglietti per Halle, solo la pandemia lo ha fermato. Un atto di Federer condiviso da milioni di fan - più o meno competenti, più o meno deliranti - in tutto il mondo: non a caso per 18 anni consecutivi è stato eletto beniamino dei tifosi dal referendum dell’Atp, l’associazione che governa il tennis maschile.
Roger, in fondo, è come il sole: riusciamo ad interpretarlo meglio ora che è al tramonto, velato da qualche nuvola. A capire che il motivo per cui piace a tanti, quasi a tutti, non sta solo nel numero delle sue vittorie, ma nella qualità delle sue esibizioni. Non solo nella longevità della sua carriera, ma nel modo in cui - attraverso il gioco - ha saputo trasformarsi dal capriccioso ragazzino che si tingeva i capelli di verde e spaccava racchette nell’ambasciatore tout court del tennis. Anzi: dello sport.
Abbiamo iniziato a rimpiangerlo mille volte, almeno da dieci anni, dandolo regolarmente per finito; ci ha sempre stupito, rinascendo come una Fenice. Il suo 2017, quando dopo una prima operazione al ginocchio riemerse da sei mesi di stop vincendo in Australia una finale leggendaria contro Nadal e di nuovo a Wimbledon, resta un’impresa che ha pochi eguali nella storia, anche perché di anni allora ne aveva già 36.
A 40 però la sfida sembra davvero impossibile.
Non che il futuro lo preoccupi, intendiamoci. Secondo i siti specializzati ha un patrimonio di 450 milioni di dollari, in carriera ne ha vinti, oltre 130 in soli montepremi, nel 2020 è stato l’atleta più pagato del pianeta (106 milioni di dollari). Uniqlo, ma probabilmente altri dei suoi ricchissimi sponsor - Mercedes, Credit Suisse, Rolex, Lindt, Moet et Chandon, Barilla, Luis Vuitton… - continueranno a sostenerlo anche dopo il ritiro. Con la sua fondazione ha raccolto più di 50 milioni di dollari aiutando un milione e mezzo di giovani in Africa (sua madre, Lynette, è nata in Sudafrica) e in Svizzera, nel video a favore del turismo svizzero ha dimostrato di reggere il confronto come attore anche con Robert De Niro.
Al di là dei tornei ufficiali, poi, ha un pubblico pronto a seguirlo anche in futuro. Le sue esibizioni - vedi la tournée in Sud Africa e Cina di due anni fa - raccolgono folle enormi, beatlesiane, e per l’ultima edizione di un’altra delle sue iniziative benefiche, il "Match for Africa", insieme a Nadal a Città del Capo il 7 febbraio 2020 ha portato allo stadio un pubblico da record assoluto per il tennis: 51.954 spettatori (a Città del Messico, nel novembre 2019, erano stati 42 mila). Insieme con il suo storico agente Tony Godsick, ha fondato una società di management sportivo, la Team8, con cui organizza anche la fortunatissima Laver Cup, la Ryder Cup del tennis, sfida semi-ufficiale fra Europa e States. La prossima edizione si svolgerà a Boston, a fine settembre, fra i convocati anche il nostro Matteo Berrettini, e qualcuno pensa che se al Genio andrà storta anche agli Us Open un paio di settimane prima, potrebbe essere quello il palcoscenico perfetto per l’addio.
Nel 2021 è voluto rientrare a tutti i costi, «perché non volevo che fossero gli infortuni a decidere la data del mio ritiro». Quando però hai vinto tutto, e soprattutto sai che rischi di non vincere più nulla, uscire di scena non è disonorevole. «Io credo che per quest’anno Roger giocherà ancora», sostiene Claudio Mezzadri, l’ex top 30 svizzero-italiano che di Federer è stato capitano di Coppa Davis. «L’anno prossimo, chissà. Dovrebbe rimettersi in gioco torneo dopo torneo, accettando di perdere partite contro avversari non alla sua altezza, e non so se ne ha più tanta voglia. Poi c’è la famiglia, i quattro gemelli che crescono e Roger non vuole stare tanto lontano da casa. Di certo non continua per paura che Djokovic e Nadal gli strappino i record: gliene importa davvero poco. Ma sa che gli mancheranno il tennis, l’adrenalina della gara, l’entrata in campo fra gli applausi del pubblico, la vita quotidiana sul circuito. Nel momento in cui lo accetterà, e capirà di non essere più competitivo, potrebbe ritirarsi da un momento all’altro». Come direbbero l’Ecclesiaste e il biblista Ludwig, c’è un tempo per vincere, e uno per finire. Per il momento, limitiamoci a festeggiare un campione senza eguali.