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 2021  agosto 01 Domenica calendario

Ritratto di Bernardo Bertolucci

Una volta incontrai Bernardo Bertolucci all’apertura di una mostra di Bernardo Siciliano, del quale era padrino. Era felice e orgoglioso per il successo del figlioccio, al quale era stato dato il suo nome, ma appena mi vide chiese di parlarmi in disparte. Il tono era gentile e lo sguardo sorridente, ma era chiaro che mi dovesse dire qualcosa che lo aveva contrariato. Appena ci appartammo, mi fissò negli occhi e mi disse: «La vuoi smettere di parlare male di Godard?».
Non me l’aspettavo, e scoppiai in una risata nervosa senza riuscire a trovare alcuna risposta decente. A quel punto fu Bernardo a chiudere la vicenda dicendo «andiamo a goderci la mostra», chiedendomi di accompagnarlo sottobraccio: era già stato colpito dalla grave malattia che lo avrebbe costretto alla sedia a rotelle, ma aveva ancora pudore di mostrare la propria fragilità in pubblico. Solo molti anni dopo, in occasione di un incontro pubblico alla Festa del Cinema ritornammo a parlare di Godard, e gli chiesi come mai avesse attribuito al personaggio del professore che viene ucciso nel Conformista l’indirizzo e il numero di telefono del regista francese. Fu Bernardo questa volta a scoppiare a ridere, e dopo avermi raccontato una lunga serie di aneddoti sul loro rapporto concluse che c’è un momento in cui i figli devono uccidere il padre, ma quell’omicidio spetta unicamente a loro.
Per tutto il periodo in cui ho organizzato gli incontri con il cinema americano all’Auditorium di Roma, mi invitava a cena insieme ai miei ospiti: erano serate memorabili, nelle quali si parlava quasi esclusivamente di cinema, ma ogni conversazione rimandava a una concezione della vita secondo cui l’arte è una necessità imprescindibile.
Sono passati pochi anni, ed è malinconico pensare che molti di questi straordinari cineasti non ci sono più, come Michael Cimino, Jonathan Demme e Sidney Lumet: la loro amicizia con Bernardo era autentica, ed era fondata innanzitutto sull’ammirazione la condivisione del senso ultimo dell’arte. Uno degli incontri più divertenti fu quello con Oliver Stone: la discussione sulle nuove tecnologie si alternò ai ricordi nei primi Anni 80 legati all’allegria con cui entrambi consumavano alcune droghe.
O quello con David Lynch, dove teorizzarono che l’alta definizione rappresenta un male per il linguaggio del cinema perché mostra troppo: «mai levare il mistero» concordarono «mai mostrare quello che lo spettatore è capace di immaginare, magari seguendo una strada che non è quella a cui hai pensato».
Era un grande affabulatore Bernardo: sapeva essere spiritoso e pungente, ed era sempre curioso, specie delle cose più lontane da lui. Si dichiarava ateo ma aveva un dialogo ricco e continuo con Padre Virgilio Fantuzzi, il gesuita critico della Civiltà Cattolica, che individuava nei suoi film elementi di sincera spiritualità. E anche con il sottoscritto si intratteneva a parlare di religione: era curioso di sapere in cosa si concretizzasse il mio credo «Preghi? Tutti i giorni? Come preghi? E riesci a sentire cosa ti dice Dio?».
Mi sono sempre chiesto quale fosse la risonanza di tutte quelle domande sulla sua esperienza personale. Nonostante fosse un mito per i cineasti di ogni parte del mondo, aveva delle sorprendenti insicurezze, e soffriva quando una sua opera non veniva apprezzata. Ricordo il dolore con cui lesse un articolo sul New York Times decisamente tiepido in occasione di una retrospettiva al MoMA, che lui inaugurò spiegando che il tema reale del Conformista è «la storia di un uomo che rimuove la propria omosessualità».
Il pubblico rimase sorpreso, era convinto di sentirlo parlare di fascismo, ma poi scoppiò in un’ovazione, che venne bissata qualche ora dopo, quando arrivò alla cena in suo onore, dove era venuto a omaggiarlo il gotha della cultura newyorkese, da Philip Roth a Robert De Niro.
Ormai la malattia aveva preso il sopravvento, e rimase per tutta la serata seduto in poltrona: sembrava l’ultimo imperatore al quale tutti erano venuti a rendere omaggio: in quei giorni dichiarò che «la solitudine può essere una tremenda condanna o una meravigliosa conquista».
Mi colpì che non parlava volentieri dell’Ultimo tango, forse a causa delle controversie suscitate dalle dichiarazioni di Maria Schneider, mentre amava parlare di film che avevano avuto meno successo come La Luna o Il tè nel deserto.
Oltre alla relazione controversa con Godard, affrontai con lui anche il complicato rapporto con Marco Bellocchio: la rivalità tra i due era accentuata dal fatto che fossero della stessa generazione e provenissero da due città storicamente rivali come Parma e Piacenza. Ma quando parlammo dei Pugni in tasca Bernardo si sciolse in un sorriso dolcissimo e disse che si trattava di un capolavoro, poi, con quel po’ di snobismo disse in inglese «well done Marco».
Nulla però lo commuoveva come parlare del padre Attilio, che definiva «uno straordinario poeta», del fratello Giuseppe «un magnifico regista, che avrebbe meritato più successo» e di Pier Paolo Pasolini, che forse più di ogni altro è stato il suo mentore: «Accattone è un capolavoro, e da Pier Paolo ho imparato che nel cinema, in ogni forma d’arte essenziale cercare la verità».
Il suo primo film, La commare secca, è tratto proprio da un soggetto di Pasolini: lo realizzò quando aveva solo ventun anni e un giorno gli chiesi cosa fosse rimasto di quel giovanissimo autore nel maestro celebrato in ogni parte del mondo e trionfatore agli Oscar. Mi rispose «la stessa ricerca, anche se con forme diverse».
Ormai viveva sulla sedia rotelle, ma continuava a ricevere gli amici nella sua bella casa di Trastevere. Erano quasi sempre giovani, con i quali dialogava con curiosità. L’ultima volta che l’ho visto gli ho chiesto come si sentisse e lui mi ha risposto: «Allegramente disperato o disperatamente allegro».