La Stampa, 1 agosto 2021
Dove vuole arrivare Leonardo Del Vecchio
«La mia grande forza è che le persone mi sottovalutano sempre», ama ricordare Leonardo Del Vecchio. Quando nel 2017 ha messo a segno la fusione tra Essilor e Luxottica, un colosso degli occhiali da 16 miliardi di ricavi e 180 mila dipendenti sparsi nel mondo, per mesi giornali e analisti si sono alambiccati chiedendosi se fosse Luxottica a essere diventata francese o Essilor italiana. Il risultato è che oggi Del Vecchio, col 32%, è presidente del gruppo mentre il suo braccio destro Francesco Milleri è amministratore delegato. Ma nonostante qualche allarme francese – al punto da far entrare un fondo statale nel capitale e nel cda, mentre Cdp non ha fatto altrettanto – quel che premeva di più all’imprenditore era creare qualcosa di mai visto. E oggi Essilux, come preferisce chiamarla, è il numero uno incontrastrato del settore. Per Leonardo Del Vecchio, archetipo italiano del Paperone fatto da sé – ex allievo dei Martinitt, primi passi da garzone in una società di medaglie e diventato quel che è creando dal nulla una fabbrica di occhiali ad Agordo, nel Bellunese, dove nasce la Luxottica – il chiodo fisso è sempre quello: crescere, perché senza una scala adeguata non si può fare nemmeno qualità.
Un mantra che declina in casa sua, come negli investimenti collaterali. Due sono partecipazioni storiche: l’1,9% di Unicredit – dove era entrato ai tempi del Credito Italiano di Lucio Rondelli fino a seguire tutti gli aumenti di capitale – e Generali (4,82%), che per lui significa un pezzo di Paese da far tornare agli antichi fasti. Fino alla recente scalata in Mediobanca dove è arrivato al 18,9%, prossimo al 19,9% che considera l’obiettivo finale, almeno per il momento. Una crescita che non basta mai anche in Essilux. Con l’acquisizione di GrandVision che apporta oltre 7 mila negozi al gruppo, ancora una volta, ha stupito tutti: pur avendo vinto la dura battaglia legale con il socio di maggioranza precedente, l’olandese Hal, non ha ritrattato sul prezzo e non s’è perso in cavilli: i 7,2 miliardi pattuiti inizialmente sono stati confermati. «Se andavano bene prima, vanno bene anche adesso», ha detto ai suoi collaboratori. Perché Del Vecchio è così: ha una visione e la persegue. Raramente fonda le sue scelte sui business plan, in lui fa premio l’istinto. «Per comprare Essilor ci ha pensato una notte. E il giorno dopo è passato ai fatti», racconta chi lo conosce. Oggi in Borsa Essilux vale circa 70 miliardi, ma per giocare in Champions League, ripete sovente Del Vecchio, bisogna superare i 100 miliardi. È il prossimo obiettivo dell’inarrestabile 86enne che, quando otto anni fa è tornato alla guida del suo gruppo, ha iniziato un’intensa opera di digitalizzazione. Al punto che pure Mark Zuckerberg, mister Facebook, qualche anno fa è volato fino ad Agordo per conoscerlo. Insieme firmeranno gli occhiali smart: usciranno in autunno con l’idea di aprire una stagione di trasformazione culturale e tecnologica delle vite di tutti. L’occhiale che diventa un portale. E crescita significa sostenibilità. Essilux punta a diventare una piattaforma globale a servizio di tutto il comparto e a giocare un ruolo centrale nella ricerca: un mese fa ha acquistato il 35% di Mazzucchelli, per iniziare a sviluppare acetato sostenibile, alla base della produzione dell’occhialeria di lusso. In Giappone ha messo a punto una nuova fabbrica, giardini zen al posto di lamiere, per esaltare nel mondo la tradizione dell’occhialeria giapponese, contraltare di quella cadorina.
E nel tempo libero? Lavoro e lavoro, dicono. Al primo cda del nuovo corso di Essilux ha partecipato dalla sua barca, perfettamente cablata per mantenerlo sempre operativo. Altra distrazione è la cucina col mitico risotto alla milanese che non può mai mancare nelle occasioni che contano. Ci sono state assemblee ritardate perché il piatto non era ancora pronto o assemblee chiuse in fretta perché, si sa, il risotto non può aspettare. Prima lo ordinava da Peck, ora se ne cura spesso lo chef Davide Oldani.
L’imprenditore e le sue visioni talvolta faticano però a farsi strada in un’Italia diffidente. È stata forte la delusione che ebbe quando i soci dello Ieo, l’ospedale fondato dal nume di Mediobanca Enrico Cuccia e da Umberto Veronesi, dissero no al suo progetto di creare un grande polo della Salute cui voleva donare 500 milioni e assicurare una rendita. A renderlo imprevedibile, poi, è la sua enorme potenza di fuoco. La sua Delfin, la cassaforte di famiglia, ha circa 25 miliardi di attività in gestione e appena 2 miliardi di debiti. Proprio per diversificare è nata l’ultima stagione, quella della finanza che l’ha portato alla ribalta delle cronache economiche. Quando ha chiesto di salire in Mediobanca s’è destato anche il Copasir paventando la calata degli stranieri, vista la recente fusione in terra francese. Ora che è in gioco, tutti a Milano si chiedono che cosa farà. Di certo è favorevole a fusioni e acquisizioni per creare colossi di scala europea. Ma sbaglia chi pensa che sarà lui il motore di queste combinazioni. Vuole porsi come un facilitatore, seminando puntini che altri devono unire.
Da pivot della finanza ostenta disinteresse ai dossier che contano, ai giri di poltrone: in linea di principio dà sempre fiducia ai manager finché portano risultati o finché non è possibile cambiarli. L’importante è che il cda dia loro pieno sostegno. Sulla strada di Generali e Mediobanca Del Vecchio ha trovato unità di intenti con un altro imprenditore assai attivo nelle partite che contano: Francesco Gaetano Caltagirone. Il primo più istintivo, il secondo più analitico. Si incrociano di rado, ma hanno affinità di vedute.
In fin dei conti però per Del Vecchio la finanza è solo un diversivo in cui rientrano anche puntate su aziende come Webuild, Guala Closures, Aquafil, Fila, la spac Space. La passione resta l’industria: fa un po’ eccezione il settore immobiliare, in cui il Cavaliere di Agordo è presente tramite Covivio, di cui è maggior azionista col 27%. Anche lì la sua visione non sbaglia un colpo come quando, qualche tempo fa, ha suggerito di comprare immobili a Berlino, città dove peraltro non aveva mai messo piede, anticipando il boom. Perché forse ha ragione lui: guai a sottovalutarlo