Corriere della Sera, 1 agosto 2021
Ricordi di Pier Luigi Pizzi
«Mosè? È in buona salute, stiamo aprendo le acque… Il problema vero sarà richiuderle e non restare sommersi», scherza Pier Luigi Pizzi, alle prese a Pesaro con le prove del Moïse et Pharaon che il 9 agosto, Giacomo Sagripanti sul podio dell’orchestra della Rai, aprirà la 42ª edizione del festival rossiniano di Pesaro quest’anno dedicato alla memoria di Graham Vick. «Il passaggio del Mar Rosso è il punto clou dell’opera. Mosè aveva Dio dalla sua parte, noi registi dobbiamo ingegnarci con quello che ci offre il teatro. E poi, a 91 anni, di Mar Rossi ne ho attraversati parecchi. Ce la faremo anche stavolta».
Difficile credere davvero all’età di Pizzi, gran signore della scena, da quasi 70 anni protagonista di indimenticabili spettacoli lirici e di prosa. Vitalissimo, spiritoso, caustico, Pizzi è un regista architetto, scenografo, costumista, ideatore di mostre sorprendenti. «La prossima, il 3 settembre a Palazzo Ducale è sui 1600 anni di Venezia, mia città elettiva. E qualche sera prima alla Fenice tornerà il mio Rinaldo, l’opera di Haendel che da 36 anni fa il giro dei teatri del mondo».
E in autunno il ritorno alla prosa: «La Turandot di Gozzi con giovani attori per lo Stabile del Veneto, La dolce ala della giovinezza di Tennessee Williams con Elena Sofia Ricci, una commedia francese con Orsini e Branciaroli».
Ma adesso è Pesaro la sua casa. «Ormai sono 39 anni di militanza al Rof, 13 titoli allestiti qui, i grandi titoli di Rossini li ho fatti tutti, il Barbiere solo due anni fa. E sono contento sia successo in maturità, mi ha permesso di sfuggire alle tentazioni della buffoneria. Che sia serio o buffo, Rossini resta un genio. Per me è un benefattore dell’umanità, ha inventato quasi tutto, compreso il rap. I suoi sillabati sono un antesignano di quel genere». Che naturalmente Pizzi conosce. «Ascolto tutto. Vivo nel mio tempo, non ho nostalgie né rimpianti. Sono curioso del futuro, il passato lo conosco già».
Anche se il suo è stato un passato straordinario. «Ho vissuto anni magnifici, conosciuto artisti indimenticabili. Le amicizie con Giorgio De Lullo e Romolo Valli, le collaborazioni con Abbado e Muti, Prêtre e Gergiev. Molti se ne sono andati, mi mancano, ma in qualche modo sono sempre con me».
Anche per questo Mosè francese le memorie sono tante. «Nell’83 proprio qui a Pesaro ho messo in scena la versione italiana, il Mosè in Egitto. Un capolavoro di concisione. Quando l’ha riscritto per Parigi Rossini ha dovuto pagare pedaggio al gusto della spettacolarità della grand-opéra che richiedeva anche il balletto all’insegna del divertissement. Quanto a me ho ricreato un Egitto di gusto biblico ma austero. L’opera comincia nelle tenebre, tutto verrà evocato da giochi di luce digitali, da effetti speciali capaci di ricreare i prodigi della storia, l’arcobaleno che spunta d’improvviso, le meteore che piovono dal cielo, il roveto ardente».
Un allestimento rigoroso con una sola concessione al presente. «Nel Cantico conclusivo, grido di speranza del popolo ebraico dopo la traversata del Mar Rosso, trasferisco l’azione alla fine della Shoah, quando gli ebrei sopravvissuti possono di nuovo guardare al futuro. Una pagina atroce della nostra storia, io l’ho vissuta. Ero un adolescente, i miei genitori avevano aiutato degli amici ebrei romani a mettersi in salvo, quando ci siamo ritrovati dopo la guerra è stato molto commovente».