La Stampa, 1 agosto 2021
Biografia di Enrico Caruso
Enrico Caruso cantò per la prima volta al Metropolitan di New York il 23 novembre 1903. L’opera di debutto fu Rigoletto: fu applaudito, bissò La donna è mobile, ma la vera trionfatrice della serata fu la Gilda della diva Marcella Sembrich. Pubblico freddino, critica così così. Per la consacrazione, Caruso dovette aspettare la sua prima Bohème in loco, il 5 dicembre; per il delirio, i Pagliacci, cinque giorni dopo. Il suo «Vesti la giubba» è in effetti ancora insuperato e probabilmente insuperabile. Avrebbe cantato al Met per l’ultima volta la vigilia di Natale del 1920, Eléazar nella Juive di Halévy: in mezzo, c’erano state 863 recite. Caruso morì il 2 agosto seguente, a Napoli dov’era nato: aveva 48 anni. Un secolo fa.Per capire il fenomeno Caruso bisogna partire da lì, dall’America. La voce non basta a spiegarlo: meravigliosa, certo, con quel timbro scuro, inconfondibile, compatto ma morbido, senza cesure dai gravi baritonali agli acuti raggianti benché non estesissimi. C’è di più, però. Il predecessore di Caruso al Met come tenore star era stato Jean de Reszke, polacco, nobile o sedicente tale, alto, bello, biondo, elegantissimo, idolo di una New York da Età dell’innocenza, che riceveva le ammiratrici al suo léver come il Re Sole e aveva un repertorio bellépochiano, cavallo di battaglia il Roméo di Gounod. Al suo posto, arrivò questo napoletano figlio di un operaio e di una donna delle pulizie, basso, atticciato, con le scarpe bicolori, l’eleganza chiassosa e «senza collo» (come scrisse il Commercial Adviser recensendone il debutto, oggi sarebbe body shaming), che regalava i biglietti agli emigrati italiani sapendo benissimo che li avrebbero rivenduti, un modo per aiutarli senza pubblicità, e che trionfava nelle opere passionali e proletarie della Giovane scuola, Cavalleria rusticana, Pagliacci, più quelle che aveva tenuto a battesimo come Adriana Lecouvreur o Fedora. Non era solo un rivoluzione vocale, ma sociale. Era la società di massa che si metteva all’opera. E allora ecco Caruso dilagare sui media, diventare un «personaggio», non più solo un cantante lirico, fare la pubblicità alle sigarette (era un accanito fumatore) e girare un film, ovviamente muto: due attività alquanto bizzarre, per un tenore.Anche perché nel frattempo era arrivato il disco. Fu Caruso a inventare davvero un’invenzione già inventata. Per caso, fra l’altro. Qui la data da ricordare è l’11 aprile 1902. Il grande producer Fred Gaisberg tornava da Roma, dove aveva inciso le voci degli ultimi castrati della Cappella Sistina. Facendo tappa a Milano, si ricordò di quel tenore che aveva sentito alla Scala in Germania di Franchetti e la cui voce gli era sembrata ideale per le rudimentali tecniche di incisione dell’opera. Caruso arrivò nel primo pomeriggio, incise dieci arie, intascò cento sterline e, affamato, andò a pranzo. Nel frattempo, aveva trasformato il disco da giocattolo a oggetto culturale, strumento di divulgazione e business. Anche qui, una svolta non solo artistica ma democratica e pop, perché permetteva di ascoltare Verdi o Puccini a chi mai sarebbe potuto entrare in un teatro d’opera. E anche un po’ populista nel repertorio crossover di canzoni nazionalpopolari, romanze da salotto, hit napoletane, cori ingrati e soli loro. Le successive incarnazioni del tenorismo «industriale» e nazionalpopolare, da Gigli a Pavarotti, nascono da lì.Tutto sommato, aveva ragione pur avendo torto il barone Saverio Procida nella sua recensione del debutto di Caruso «in casa», al San Carlo, il 30 dicembre 1901, Nemorino nell’Elisir d’amore. Non fu per niente il fiasco di cui si è sempre detto e anche l’articolo di Procida sul Pungolo non è affatto una stroncatura. Semplicemente, Procida descrisse un modo di cantare, di recitare, anzi direi di più: di porsi davanti al pubblico, che era nuovo. Meno elegante, meno manierato, più evidente, più immediato, forse anche più facile da capire, e per tutti. Era cambiato il mondo, inevitabile che cambiasse anche il canto. Caruso la prese male («O presebbio è bello, ma ’e pasture so’ malamente») e mai più cantò a Napoli. Ma il giudizio negativo o semplicemente l’incomprensione per chi innova, inventa, sfida la tradizione, o magari solo la aggiorna, sono la regola e non l’eccezione, in tutti i campi. Prima di diventare, a sua volta, regola e generare un consenso globale. Per questo Caruso resta un mito. Per questo i suoi dischi si continuano a rieditare e ad ascoltare, per questo ha ispirato film e canzoni, talvolta perfino belle, vedi quella di Lucio Dalla, per questo gli sono stati dedicate strade, musei e perfino un asteroide. La sua arte ha fatto la storia, ma non è storica e nemmeno moderna. È contemporanea.