la Repubblica, 1 agosto 2021
Confessioni dell’uomo che cammina sul filo
Il funambolo Loreni oggi si metterà alla prova sul lago di Ceresole di Dario Cresto-Dina La mattina del 6 agosto 1974 il francese Philippe Petit, il più grande funambolo della storia, camminò per otto volte da una parte all’altra su una fune d’acciaio spessa meno di tre centimetri tirata tra le due Torri Gemelle di New York ancora in costruzione. Gli ci erano voluti sei anni per elaborare il piano con il quale beffò la polizia americana. Non fu un atto rivoluzionario ma il coronamento di un desiderio. Una gittata di 42 metri e mezzo a 418 metri dal suolo. Fu, dopo quella sulla Luna, la passeggiata più incredibile fin lì compiuta da un uomo. «Io do forma al vuoto», disse Petit che era cresciuto a Parigi come artista di strada e giocoliere e era stato arrestato oltre cinquecento volte per avere fatto sparire portafogli e orologi ai suoi spettatori. Magicamente. A chi gli domandava se non temeva la morte lassù, rispondeva che, al contrario, quella fune rappresentava per lui la vita. Quando realizzò l’impresa aveva 35 anni. Ne ha 46 Andrea Loreni, la versione italiana di Petit che oggi camminerà a oltre venti metri di altezza tra le due sponde del lago di Ceresole Reale, nel parco nazionale del Gran Paradiso, per celebrare i novant’anni dall’inaugurazione della diga, avvenuta il 2 agosto del ’31 alla presenza del principe Umberto di Savoia. La vita di Loreni sarà lunga 302 metri, ma a guardarla dal basso credo ci sembrerà eterna. Ci dovesse ripensare, non potrà tornare indietro, immagino. «Assolutamente, troppo complicato. Dopo i primi tre passi i piedi scivolano via, sono loro a farsi carico del corpo. E i piedi non sono predisposti per un dietrofront. Il mio mestiere è arrivare dall’altra parte. Mi è capitato di non partire, questo sì, per il troppo vento o la pioggia». Lei è l’unico funambolo italiano specializzato in grandi altezze. L’8 agosto sarà a Verbania sul lago Maggiore, il 12 settembre scavalcherà nelle Langhe le vigne di Bruno Ceretto. Che cosa c’è nello spazio tra la partenza e il traguardo, a quali pensieri bisogna attingere per combattere ad armi pari con la forza di gravità? «Guardi, le anticipo che rischio di sfiorare l’incomprensibile. L’essere scompare, si fraziona, a volte il pensiero si liquefa o si trasforma in onde senza logica. Sono laureato in filosofia teoretica, ho partecipato a più di un seminario di meditazione a Okayama in Giappone, nel monastero di Sogen-Ji sotto la guida del maestro Shodo Harada Roshi, eppure non so spiegare l’improvviso manifestarsi dentro di me della verità che si trasforma poi in sicurezza e pace. Da quel punto in poi sono certo che non potrò precipitare». Non riesco a seguirla. Sta dicendo che c’è un “qualcosa” che non appartiene alla sfera della nostra comprensione umana e che la porta dall’altra parte, una sorta di transfer che agisce per mezzo della corda? «Esattamente il contrario, tutto dipende dall’ascolto di noi stessi. Le racconto una mia storia personale. Sette anni fa mia moglie ed io abbiamo avuto una bambina che volevamo chiamare Viola. È stata lei a farci capire che stavamo sbagliando, il suo carattere fin dai primi giorni era quello di una Frida, nome di origini tedesche che significa portatrice di pace. Viola non c’entra niente con me, sembrava dirci, chiamatemi Frida. E Frida è stata. A volte basta davvero ascoltare». Abbiamo letto i libri di Petit, visto i film e i documentari su di lui. Che ircocervo è il funambolo, soprattutto quando abbandona la scuola e la famiglia del circo e si sposta sulle grandi altezze? «Sul piano atletico è per metà un ballerino e per l’altra un arrampicatore a mani libere. Sentimentalmente è un artista a cappello molto visionario alla continua ricerca di una strada tra Alfa e Omega. Che cos’è tirare una fune da un punto a un altro se non tracciare una via che hai visto dentro la tua mente e che ti regala un’eccitazione primordiale? Il funambolo crede nel vuoto, nella sua energia, nelle sue molteplici forme, nella forma che egli stesso gli può imprimere. Il vuoto lo accoglie. Sulla fune il funambolo è come una foglia di un albero, le sue radici di acciaio lo collegano alla terra. Professionalmente è un precario, simbolo che ben rappresenta il tempo che stiamo patendo: spettacoli qui e là, un paio di libri, qualche corso universitario o a manager di banche e altre imprese per curare lo stress, con la corda tirata a cinquanta centimetri di altezza, un po’ come il livello del nostro tenore di vita». Lei è nato a Torino. Dove si è svolta la sua prima camminata? «A Cuorgné, nell’alto Canavese, posto di colline e fiumi dai nomi spaventosi, come l’Orco che nasce proprio in questa vallata e che in passato ha fatto disastri, mangiandosi terreni, case e persone. Avevo sei anni e avevo seguito la mamma dopo la separazione dei miei genitori. Legai una corda di canapa tra due castagni, cominciai a un metro dal suolo. Ero poco più che ventenne quando mi aggregai alle prime compagnie di artisti di strada: giocoleria, scala, monociclo, Milano, Brescia, il Sud, la Francia, la Serbia, la Thailandia. Cominciai a viaggiare e la corda cominciò piano piano a raggiungere vette più impegnative». Come la si affronta sul piano tecnico? «All’inizio devi star su in posizione quasi orizzontale, il peso deve distribuirsi lungo il filo per restituire equilibrio alla postura verticale che va assunta solo quando ci si sente pienamente responsabile del proprio assetto. Sui lunghi percorsi il cavo oscilla parecchio, così diventa fondamentale la correzione del bilanciere, un’asta di ferro di sette metri e del peso di dodici chilogrammi. Raggiunta la morbidezza fisica, il più è fatto. Si guarda la fune che resta da percorrere e a quel punto la senti tua». Quanto si è preparato per questa traversata record? «Una settimana di lavoro sul posto, assieme alla mia solita squadra di operai acrobatici, i rigger, professionisti e amici nelle cui mani metti la tua incolumità e di cui ti fidi ciecamente perché è come se venissero lassù con me. Non sono possibili errori, se vuoi vivere. Tre furgoni di materiale, trecento chili di cavo in acciaio dal diametro di quattordici millimetri, due gru sugli opposti versanti della diga per gli ancoraggi della fune. Alla fine contempli l’ambaradan che hai montato e per quanto orgoglioso e persino arrogante tu possa essere ti senti piccolo, piccolo, insignificante mentre sulle montagne magnifiche scende la notte, davvero nera come la pece. Ma arriverà un altro mattino…». Sotto di lei ci sono 35 milioni di metri cubi d’acqua gelata e una profondità di quasi 50 metri. Abbia l’onestà di riconoscere che un po’ di paura l’avverte. «Ce l’ho sempre e ne ho tanta. La paura cammina con me».