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 2021  luglio 31 Sabato calendario

Appunti sul semestre bianco

Renzo Laconi, dice niente? Proprio niente? Peccato. Perché ne sentiremo parlare, e forse dovremo perfino imparare a conoscerlo. È a lui, infatti, che dobbiamo quella sorta di Glaciazione Istituzionale nella quale sta per precipitare il Paese: essendo stato lui a immaginare e volere – tre quarti di secolo fa – quella tagliola che porta il nome un po’ desolante di semestre bianco.
Renzo Laconi era un deputato membro dell’Assemblea costituente. Sardo, filosofo e naturalmente comunista: diciamo naturalmente perché fu lui – segnato dall’opposizione al regime fascista – a vedere un possibile problema nell’impalcatura costituzionale che, finita la guerra, si stava finalmente progettando: «Se il Presidente della Repubblica, allo scadere del suo mandato, si trovasse con due Camere le quali in modo evidente non gli fossero favorevoli, egli potrebbe benissimo scioglierle e prorogare i suoi poteri per avere nuove Camere che potrebbero essere a lui più favorevoli». E così, l’Assemblea costituente condivise il timore e stabilì che negli ultimi sei mesi del suo mandato il Presidente della Repubblica non potesse sciogliere le Camere e portare il Paese alle elezioni anticipate.
Il cosiddetto semestre bianco, dunque, nasce da una «preoccupazione partitica» – diciamo così – nei confronti delle mosse di un Presidente della Repubblica che volesse restare al suo posto per un secondo mandato: uno scenario che evidentemente fa sorridere, se paracadutato nell’oggi. Il film prossimo venturo, infatti, potrebbe avere una trama totalmente opposta: e fotografare pletore di leader politici e addetti ai lavori che sfilano come ombre al Quirinale per chiedere al capo dello Stato di restare al suo posto ancora un po’. Ma tant’è.
Nel semestre bianco, per altro, ormai ci siamo. E una cosa almeno è diventata irreversibilmente chiara: che ad eleggere il prossimo capo dello Stato (vecchio o nuovo che sia) sarà l’attuale Parlamento. Circostanza che porta con sé due conseguenze: la prima, è che ne vedremo delle belle, per dir così; la seconda, è che ci aspettano mesi politicamente incontrollabili. Perché se fino a ieri recitare la parte del partito di governo e di lotta qualche problema poteva comportarlo, da domani quei problemi potrebbero trasformarsi addirittura in opportunità.
Si potrà essere prima d’accordo e poi in disaccordo senza rischiare che il tutto precipiti in elezioni anticipate, prospettiva effettivamente temutissima da molti. Si potranno arroventare ulteriormente le campagne elettorali d’autunno nelle grandi città, gettando senza remore nella contesa questioni già oggetto di scontro a Roma. E sui vaccini e sulle regole della lotta al Covid – soprattutto – potrebbero finire per scontrarsi frontalmente e definitivamente sensibilità e visioni non compatibili, ma fin’ora tenute per quanto possibile a freno: con conseguenze drammatiche e facilmente immaginabili.
Paradossalmente, insomma, una fase considerata “istituzionalmente delicata” rischia di trasformarsi in un incontrollabile rodeo politico dove i concorrenti rischiano poco e il Paese invece tanto. E ancor più paradossalmente, il semestre bianco può trasfigurare in qualcosa che i padri costituenti – reduci da vent’anni di regime – non potevano forse prevedere: un Presidente della Repubblica disarmato (o quasi) di fronte a partiti che vanno perdendo l’indispensabile senso di responsabilità.
Non era mai accaduto prima. Nessun semestre bianco si era profilato all’orizzonte insidioso come questo che si apre a pandemia ancora in campo. In una sola occasione (1991, al Quirinale c’era Cossiga) fu necessario apportare una modifica alla Costituzione, visto che la fine della legislatura coincideva con la conclusione del mandato presidenziale e qualcuno le Camere doveva pur scioglierle per permettere le elezioni... Filò tutto liscio. Come prima e come sarebbe accaduto anche dopo.
In quel caso, in fondo, si trattava di rimediare ad un intoppo di regole (ingorgo istituzionale) che poco ha a che fare col groviglio politico che invece accompagna la fine del settennato di Sergio Mattarella. Troppe cose fuori posto, a guardar bene: a Palazzo Chigi, l’uomo che tutti immaginavano al Quirinale, ma forse ora è meglio che resti dov’è; al Quirinale, un Presidente che ha già detto di voler andare via, ma forse sarà costretto anche lui a rimanerci ancora un po’ (come il predecessore, del resto); e al governo, partiti che solo l’emergenza economica e sanitaria poteva mettere assieme, in guerra perenne e – soprattutto – senza ancora la minima idea di come risolvere l’intricatissimo nodo che tiene assieme Quirinale, Palazzo Chigi e la legislatura.
Chi ha un minimo di interesse per la politica, sa che l’elezione del capo dello Stato rappresenta da sempre una prova difficile e delicata per tutti i partiti. Non sempre il percorso è semplice. Quasi mai è lineare. A volte ci si ingarbuglia a tal punto che nessuna soluzione sembra più possibile: poi qualcuno tira fuori il coniglio dal cilindro. L’ultima volta fu Renzi, con la sorpresa-Mattarella. Stavolta ci si guarda intorno ma registi non se ne vedono. A meno che non si punti a semplificare la questione...
Qualcuno lo ha già fatto e dice: Draghi è la nostra garanzia verso l’Europa, dunque non è il caso che lasci ora palazzo Chigi. Qualcun altro ha aggiunto: Mattarella resti ancora al Quirinale fino a fine legislatura (primavera 2023) e poi il nuovo Parlamento sceglierà il successore. L’ultimo, infine, ha domandato: ma gli altri sono tutti d’accordo? Ecco, questo semestre bianco comincia così. E se il buongiorno si vede dal mattino... —