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 2021  luglio 30 Venerdì calendario

Intervista a Silvio Orlando


Silvio Orlando ha ricevuto il premio «Truffaut» davanti alla giovane platea del Festival di Giffoni. «Diciamo che suona bene, è un riconoscimento utile che ti collega a quello che dovrebbe avere come missione il cinema: l’educazione e l’instillare piccole scintille. All’ingresso di casa ho il grande poster de I 400 colpi. In comune ho l’infanzia difficile».
Lei a nove anni ha perso sua madre.
«Per tanto tempo non ne ho mai parlato. Non riuscivo proprio. Il suo tumore era un tabù, era un richiedere pietà e condiscendenza, le cose che detesto di più… Le zie o pseudo zie che ti dicono chiamami mamma... Non ho mai ceduto a queste suggestioni».
E poi?
«Poi ho sentito che dovevo cambiare, perché è da lì che nasce il mio essere attore, cerchi un risarcimento dalla vita. Prima i compagni di classe mi mettevano in mezzo, poi, quando sono diventato orfano, a scuola le maestre mi alzavano i voti, le bambine mi davano i bacetti, i bambini mi hanno cominciato a considerare. Il giorno che in classe arrivò un altro orfano, il mio nuovo status scemò».
E suo padre?
«A lui non piacevano le smancerie. Ho due tipi di sangue, quello napoletano che mi porta all’indolenza, alla tenerezza e poesia, e quello sannita che ho preso da mio padre, la tempra dura, forte. Papà non c’è più ma qualcosa di me ha visto, per esempio Il portaborse, per il quale un giornale del Sud mi definì micidialmente inespressivo».
Lei a Venezia ha due film.
«C’è un elemento che lega Il bambino nascosto che Roberto Andò ha tratto dal suo romanzo (è la storia di un maestro di piano e di un bambino che si nasconde a casa sua, figlio di un camorrista), ad Ariaferma di Leonardo Di Costanzo: qui sono il capo dei carcerati e Toni Servillo il capo degli agenti, in una prigione in dismissione dove regna un’atmosfera sospesa. È un film sull’assurdità del carcere. A volte lo Stato si vendica, tiene delle persone in una sospensione della vita che è anche la vita delle guardie, così ripetitiva e ossessiva nell’aprire e chiudere cancelli. Il tema comune è la violenza subita e restituita, il pensare di salvare gli altri e invece sono gli altri che ci salvano. Il tema è come interrompere il circolo vizioso della violenza. Li considero due esempi di cinema civile».
A Venezia la capienza delle sale sarà della metà, le feste per gli Europei…
«Io credo che quelle due ore di gente a festeggiare la vittoria di calcio ha avuto lo stesso impatto di due stagioni teatrali. Se il virus è stata l’ultima spallata alle sale? Con le belle tv che ci siamo comprati se ne sente meno la mancanza. Però ho visto al cinema Bellocchio e Un altro giro e le vibrazioni le senti».
I registi
Moretti ha qualificato il mio percorso, Sorrentino ha segnato una nuova fase della carriera
Lei sta vivendo una splendida maturità.
«Dai 30 ai 40 anni avevo già ruoli centrali, però mi sento più sicuro dopo la Coppa Volpi per Il papà di Giovanna di Pupi Avati e il cardinale di The Young Pope di Sorrentino, che ha segnato questa nuova fase. Funziona così, diventi più bravo e ci sono meno ruoli. Con Paolo devi stare attento a non rovinargli il film, che è tutto nella sua testa. Con Nanni Moretti invece...».
Ha detto di essere il suo martire volontario.
Sorride: «Nanni non mi ha inventato come attore, ma non l’avrei fatto come l’ho fatto. Ha qualificato il mio percorso in modo clamoroso».
Compromessi?
«Quando ho fatto tv, ma da ragazzo non ho mai voluto diventare Mike Bongiorno. Nell’ambito del sogno mi muovevo tra Mastroianni e De Niro. La tv resta un elettrodomestico, utile, invasivo, pervasivo. La gente che lavora dentro a quella scatola un po’ si ammala, sono ossessionati da quella cosa del risultato, l’auditel».
Lei dice che essere di sinistra è una fatica disumana.
«Storicamente, la sinistra si occupa dei sogni, che sono inadeguati mentre la destra dei desideri, più facili da realizzare. È complicato definirsi di sinistra: secondo quali parametri, quello di un sindacalista degli Anni 50, o di un attore del 2000? Alla fine cerchi di fare bene il tuo lavoro».
I ragazzi di Giffoni?
«Vorrei costruire un repertorio per loro, a teatro una versione di La vita davanti a sé di Romain Gary, tra l’altro parla di un orfano che è il vero handicap, più che essere povero. È la storia di un bambino con la vita davanti, angosciato dall’avere questo cammino senza chance di farcela, sulla carta. Pensando al mio mestiere, il talento non sempre equivale alla passione».