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 2021  luglio 30 Venerdì calendario

Ripartiamo da D’Avanzo

Quanto sarebbe piaciuta questa riforma della giustizia all’ultimo grande giornalista “impegnato”, al cronista che sulla giustizia italiana “ci si rompeva la testa” come il capitano Bellodi di Sciascia se la rompeva con la mafia? Lo so che è un errore, ma spesso ancora ci capita di chiederci cosa penserebbe di questo o di quello il nostro campione più audace e radicale e dunque più imprevedibile. E sempre c’è qualcuno che sospira dicendo che dovremmo semmai chiederci perché in dieci anni quel suo mestiere di cronista, già così amaro e difficile, sembra invecchiato di cento anni. Diciamo la verità: il giornalismo era già in crisi ma Peppe diceva che più ancora delle altre professioni il giornalismo cresce a ogni crisi, si esalta nelle crisi e si alimenta delle crisi.
A quel tempo Peppe aveva l’ossessione dell’andare a vedere. Litigavamo, io e lui, perché allora pensavo, con Cecchi e Sciascia, che stare a sedere, per un grande inviato, fosse più importante, che non si poteva incontrare e raccontare Buscetta, come faceva lui, senza studiare il tradimento come gli consigliavo io e che non si poteva assistere al maxi processo senza prima smarrirsi in Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino.
Ebbene se volete capire come si coniuga lo stare a sedere con l’andare a vedere e si diventa un grande giornalista leggetevi il Peppe delle inchieste, magari saltando le famose dieci domande a Berlusconi tra le quali non ce n’è neppure una su Ruby perché non c’era mai l’occhio di Peppe tra quelli che si attaccavano al buco della serratura in cerca della morbosità della mignottocrazia. Leggetevi per esempio come Peppe raccontò Roma nel 1978, l’anno del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, le cronache ricche di eleganza, di ironia e di pietà sulla vita quotidiana attorno ai covi e ai falsi covi del terrorismo, gli appartamenti prigioni con le serrande abbassate in via Gradoli, in via Chiabrera, a Borgo Pio e poi, in mezzo ai turisti, i settemila posti di blocco, le settemila perquisizioni, i duecentomila fermati, le centomila auto ispezionate… E intanto «almeno venti brigatisti riuscivano con successo ad attraversare la capitale in lungo e in largo, a telefonare alla famiglia e agli amici del presidente della Dc da piazza Colonna, da viale Giulio Cesare, dalla controllatissima stazione Termini, a incontrasi in piazza Barberini, all’angolo di via Veneto per decidere se uccidere o liberare il prigioniero». Sono pagine straordinarie di un giornalismo dell’andare a vedere ma con la profondità di chi, essendo stato a sedere, già intuiva la faglia oltre la quale sarebbe cambiata la verità del Paese e sarebbe cominciata un’altra avventura.
Ecco, nel 2021 è al mio amico Peppe che bisogna ritornare, alla religione della notizia, alla sontuosità della scrittura, al dispositivo narrativo, alla felicità del racconto. È da Peppe che bisogna ripartire perché nel nostro stanco giornalismo torni a scorrere il sangue del Paese.