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 2021  luglio 28 Mercoledì calendario

Gian Carlo Fusco, dal pugilato al Mondo

Negli anni Cinquanta del secolo scorso il Caffè Fappani era il cuore della risorta Passeggiata a mare di Viareggio; nell’azione al rallentatore dei tramonti versiliesi, non era raro veder formarsi un capannello dove un irresistibile personaggio ipnotizzava i clienti con il racconto della sua vita, anzi “delle sue molte vite”. Aveva un’aria da senza tetto, e lo era davvero. Viso scavato, riccioli incolti, occhi saettanti. Raccontava di quando era stato al servizio dei “durasse” della mala marsigliese (specializzazione “bambù”, guardiano di prostitute); di quando aveva calcato il ring, specialità Pesi Gallo; di quando aveva combattuto in Albania da geniere alpino. Dopo la liberazione, eccolo in Versilia. Finché la pineta del Tombolo era stata terra di nessuno, aveva messo su un baraccone di arte varia: boxeur, ballerino di tiptap, fachiro, chiromante, e perfino incantatore di serpenti (in realtà, innocue bisce d’acqua).
Ogni mito ha la sua levatrice. Venere sorge dalle acque di Cipro, Montanelli nasce insieme alla sua Lettera 22. Gian Carlo Fusco, figlio di un ammiraglio spezzino, classe 1915, emerge dai tavolini del Fappani, dove l’amico Manlio Cancogni, collaboratore del Mondo, ascoltato l’ennesimo racconto, non ha più dubbi: “Questa la devi scrivere, poi spediamo il pezzo a Pannunzio”. Che un lucchese (quale era il direttore del Mondo Mario Pannunzio) desse credito a un viareggino non si era mai sentito; ma la vita di Fusco è stata la più confermata delle regole, fatta di sole eccezioni. Il Mondo lo terrà a battesimo pubblicando La sua battaglia, esilarante sortita di Mussolini sul fronte albanese, e di lì a poco arriverà una proposta di assunzione.
Che due lucchesi diano credito a un viareggino attiene al paranormale; eppure il direttore dell’Europeo Arrigo Benedetti (anch’egli nato a Lucca, e come Pannunzio cresciuto alla scuola di Leo Longanesi) nota quell’esordiente di genio, quella scrittura impasto di documentazione, ironia e mimesi, e lo convoca a Milano. Camilla Cederna racconta il materializzarsi di Gian Carlo Fusco tra i redattori radical-chic di via Monte di Pietà con queste parole: “Sandali sfasciati ai piedi, pantaloni con un fil di ferro per cintura e una cordicina più sotto, dove era più che necessaria una chiusura, quella bocca vuota, la barba lunga e un bosco di riccioli disordinati. Un clochard”.
Nei match di pugilato qualcosa di vero doveva esserci, perché le scazzottate gli avevano fatto cadere tutti i denti. “Lo assumo a patto che si faccia fare la dentiera”, dice Benedetti, così i primi stipendi serviranno per restituire a Cancogni i soldi anticipati per una costosissima protesi. Il resto se ne va per la grappa che la Nardini spedisce all’indirizzo del “Bar Fusco”, immaginando che quegli ordini di parecchie casse al mese potessero arrivare solo da un bar.
“Bar Fusco”: ormai lo chiamano così sia i colleghi di redazione, sia gli amici con cui tira mattina nei locali di Milano, dove all’occorrenza la sofisticata dentiera si rivelerà un’ottima arma impropria. Fusco non rinnegherà mai né i caffè, né i tavolini, darà diverse dimissioni e mai l’esame per diventare giornalista professionista, ma è proprio questa anarchia a nutrire il suo talento di irregolare assoluto, senza tetto né legge. Al Giorno ruggente di Baldacci e Mattei, diventa la prima firma; narra la leggenda – unica fonte attendibile quando si parla di Fusco – che per stilare le trenta righe della Colonna sudasse davanti alla macchina da scrivere per ore assistito dai suoi grappini, e la leggenda è fededegna, perché il giornalismo non fu mai per lui un’attività di serie B, casomai lo furono scrivere per il cinema e la letteratura, nonostante il capolavoro di Duri a Marsiglia scritto negli ultimi anni quasi per necessità.
D’altra parte, in Fusco certe distinzioni hanno poco senso, come ha sintetizzato il suo gemello diverso Cancogni: “Mentendo approfondiva la verità, aveva il talento eccezionale di dare una qualità fantastica alla sua vita. Come un grande attore entrava nella vita degli altri, ricreava le loro azioni rendendole più vere del vero”. Il che accade regolarmente nei suoi reportage, nei suoi ritratti, nelle sue inchieste: si tratti di seppellire il Fascismo nel ridicolo della sua stessa retorica, di descrivere i nuovi eroi del Boom o di rendere omaggio alle maîtresse messe a riposo dalla legge Merlin.
In tempi di fact cecking, sarebbe dura per uno come lui; ma sono timori infondati perché il giornalismo è diventato un’altra cosa, come notava Natalia Aspesi già nel 1985: “Oggi uno come Fusco probabilmente non incomincerebbe nemmeno a scrivere”. Già. Ma anche mezzo secolo prima, fosse stato per lui, si sarebbe fermato lì, ai tavolini del Fappani; dopo un decennio di dolce vita a Milano, dagli anni Sessanta si trasferisce a Roma e lì sarà una vita agra, un lungo e non meno leggendario declino, impegnato, da autentico scrittore qual era, a chiudere da giornalista fallito. Un anno prima di morire si può ammirare il suo cameo in Paulo Roberto Cotechinho centravanti di sfondamento, nel ruolo del giornalista Trombetti. Bastian contrario fino all’ultimo, verso tutti, ma prima di tutto verso se stesso.