la Repubblica, 29 luglio 2021
Intervista a Brian May
Il titolo è Back to the light, ritorno alla luce, ma anche se l’album è uscito per la prima volta nel 1992 è impossibile non collegarlo a tutto quello che ci sta accadendo, al “ritorno alla luce” dopo mesi di clausura: «Ci ho pensato anche io, ovviamente», dice Brian May, 74 anni, «è stato un periodo buio, siamo stati circondati dal dolore, dalla morte, abbiamo perso una parte della nostra libertà, e il sentimento di oggi è proprio quello del ritorno alla luce». Il chitarrista dei Queen parla del suo primo album, Back to the light appunto, che ha deciso di ripubblicare il 6 agosto in versione “deluxe” con l’aggiunta di un altro intero album con inediti e live. Era l’esordio di May come solista, dopo ventidue anni di militanza nei Queen, al fianco di Freddie Mercury, Roger Taylor e John Deacon, arrivava in un momento difficilissimo della sua vita, quello del “ritorno alla luce” dopo la morte di Mercury avvenuta meno di un anno prima e si intreccia con le vicende di quei giorni, fino all’estremo di Nothin’ but blue, scritta la sera prima della morte del cantante. Alcuni brani sono diventati classici dei Queen, come Too much love will kill you; altri sono stati successi per proprio conto, soprattutto dopo la presentazione che May fece al Freddie Mercury Tribute Concert, allo stadio di Wembley nell’aprile 1992. Too much love will kill you è un brano che May ritiene essere forse la registrazione più importante della sua carriera, «ma più in generale quest’album è per me legato a un periodo particolarissimo della mia vita», ci dice facendo riferimento al periodo tra il 1988 e il 1991, segnato dalla perdita di suo padre, di Mercury, dalla temporanea cessazione delle attività dei Queen, dalla separazione dalla prima moglie e dalla relazione con Anita Dobson che lo portò all’attenzione dei tabloid. L’album fu una sorta di terapia: «Parla prima di tutto a me, vedo ancora quel ragazzo di trent’anni fa e quel che aveva da dire lo voglio dire ancora. Credo di essere rimasto, per molti versi, simile a quel Brian May».
Perché ha deciso di riproporre “Back to the light”?
«È iniziato tutto in un modo curioso.
Ogni tanto uso Instagram e avevo realizzato una piccola clip che volevo pubblicare. Con Instagram potete scegliere la musica da una libreria di brani e quelli di Back to the light non c’erano, solo una canzone, Drive by you. Ho pensato che fosse un peccato, mi sono detto: vado a parlare con la mia casa discografica. Ma mi sono reso conto che non ne avevo una.
Allora sono andato alla Universal e con loro abbiamo pensato di ripubblicare i miei album solisti. Ma durante il lockdown, riascoltando il materiale, ho pensato che non mi andava di pubblicare un box con tutto e che avrei preferito affrontare un progetto alla volta, trattare ogni uscita come se fosse un album nuovo. Tanto, il novanta per cento della gente penserà davvero che lo sia, perché non era nemmeno sulle piattaforme streaming...».
Perché aspettò fino al 1992 per il suo primo album solista?
«Ero completamente immerso nei Queen, ero il primo ad arrivare in studio e l’ultimo ad andare a casa. Ero fiero di essere il “motore” del gruppo, e non avevo tempo di fare altro. Se avevo canzoni personali diventavano materiale per la band o le mettevo da parte. Ci è voluto tanto, perché con i Queen ero soddisfatto, mi piaceva scrivere con e per Freddie, era il veicolo perfetto per certe idee. Ma sapevo che prima o poi avrei voluto fare qualcosa per conto mio».
Chi la spinse a farlo?
«Cozy Powell, uno dei miei più grandi amici e un’incredibile musicista. E poi ci fu la richiesta di realizzare uno spot per la Ford, nulla di più lontano dal mio mondo, ma la trovai interessante e accettai. Da quello spunto ho scritto Drive by you, lo spot e la canzone sono nati insieme, ho fatto quella pubblicità non per i soldi ma per la possibilità di realizzare tutto da solo e il fatto che il pezzo fosse un successo mi ha dimostrato che potevo andare avanti».
Certo è incredibile che Brian May possa non essere sicuro di sé...
«Gli artisti sono persone strane, difficili. So di essere più cosciente dell’universo che ho nella mia testa rispetto a quello vero, cosa piuttosto curiosa per un astrofisico... È una faccenda complessa ed è inutile negare che molte volte anche io cado a pezzi».
E l’amore viene in suo soccorso...
«Alle volte non c’è niente che sia abbastanza ma l’amore è centrale, senza non sarei nulla. Mia moglie Anita, che avevo conosciuto da poco, allora divenne la mia religione, la mia fede, la connessione senza la quale non avrei potuto vivere».
Non era un periodo facile quello in cui ha concepito l’album, la crisi dei Queen, la malattia di Mercury...
«È sempre vero che devi vedere l’oscurità per capire la luce. Ma c’era anche tanto humor, tanta speranza, un nuovo ottimismo e si sente molto ascoltandolo oggi, è quello che lo rende ancora attuale. Mi ricordo quanta fatica ci ho messo per cantare, quanto mi sanguinavano le dita, ed ero orgoglioso di essere sostenuto da quel terremoto di Cozy Powell. La sua è stata un’altra perdita difficilissima da superare. La vita è fatta così, non appena arrivi in cima a una montagna ce n’è un’altra da scalare subito dopo».
Pubblicare un album del 1992 nel pieno del 2021 è una bella sfida.
«Io sono un tipo “old school”, anche se non sono contro i computer, i campionatori, i software o il digital recording. Ma so che la musica suonata davvero è un’altra cosa, è lì che è il vero cuore, la vera anima del rock. E dato che questa musica esprime principalmente il senso di libertà, non credo morirà mai».
Un successo anche con le giovani generazioni?
«Mi piacerebbe che potessero ascoltarlo in vinile, vivere quell’esperienza clamorosa che era mettere un album su un giradischi, sedersi e stare fermi ad ascoltare musica, prima un lato e poi l’altro, lasciandosi portare con la mente in luoghi dove non si è stati prima.
Sarebbe una grandissima soddisfazione».