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 2021  luglio 28 Mercoledì calendario

Tanaka, il memoriale delle fake news

Anche il Giappone imperiale, come la Germania nazista, ebbe un suo Mein Kampf, manifesto che, in parallelo al pamphlet firmato da Adolf Hitler nel 1925, annunciava al mondo la strategia di aggressione imperialista. Era il Memoriale Tanaka, redatto in segreto dal primo ministro di Tokyo, l’austero barone e generale Tanaka Giichi, nato in un’antica casata di samurai. Annunciata per la prima volta nel 1929, a Nanchino, dal mensile nazionalista cinese Affari Correnti, la piattaforma di Tanaka era spavalda e feroce come la hitleriana: «Per conquistare il mondo il Giappone conquisterà l’Asia. Per conquistare l’Asia conquisterà la Cina. Per conquistare la Cina conquisterà Manciuria e Mongolia: allora i paesi del Mar Cinese Meridionale si arrenderanno, terrorizzati».
Il capo dello spionaggio russo, lo spietato Feliks Dzerzhinsky, aveva in mano il Memoriale già dal 1925, quando lo presentò felice al bolscevico Trotskij, allora al potere a Mosca: «Grazie a queste pagine scoppierà la guerra tra Stati Uniti e Giappone» gongolava. A dar peso al Mein Kampf giapponese fu la sua nuova pubblicazione, il 17 settembre del 1931, sul giornale in lingua inglese di Shanghai China Critic. Il giorno dopo, infatti, i giapponesi invadono la Manciuria e in 24 ore il Memoriale Tanaka diventa lettura obbligata di Cancellerie e Stati Maggiori. Lo stesso perfetto sincronismo si ripete con il numero di novembre 1941 della rivista americana Click, che in copertina, accanto a una sensuale foto dell’attrice Jane Russell, rilancia il piano di guerra del barone Tanaka: «L’America è il prossimo bersaglio del Giappone!». Solo pochi giorni dopo, il 7 dicembre 1941, l’aviazione imperiale colpisce la base Usa a Pearl Harbor uccidendo 2400 militari e affondando la flotta. Radio e giornali titolano frenetici sul Memoriale Tanaka, il Congresso ne impone la diffusione nelle scuole e negli uffici, il celebre regista Frank Capra, nel popolarissimo documentario Perché combattiamo, ne cita le tesi: combattiamo per non esser schiavi dell’Imperatore.
Recentemente le forze armate giapponesi e americane han condotto manovre militari congiunte sulle rotte di navigazione che Pechino contende, intorno a Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale, e la reazione del presidente Xi Jinping è stata durissima, durante le celebrazioni per i 100 anni del Partito comunista, «chi attaccherà la Cina si romperà la testa, sanguinando contro il Muro d’Acciaio del nostro popolo». Un secolo dopo, teatri, strategie, toni del Memoriale Tanaka tornano d’attualità e la monumentale storia ufficiale dello spionaggio russo, edita dall’intelligence SVR, nel secondo dei suoi sette volumi, elogia dunque Dzerzhinsky, che già nel 1925, quattro anni prima della pubblicazione, si era impadronito segretamente dei piani nefasti di Tokyo.
Un vecchio dossier che lega Giappone, Cina, Russia e Stati Uniti torna a far discutere: peccato però che il barone Tanaka Giichi non abbia scritto neppure una parola del Memoriale e che si tratti di un falso, un classico della disinformazione che neppure nel 2021 si riesce a confutare. La storia incredibile è ripercorsa nel recente volume Active Measures dello studioso Thomas Rid (in corso di traduzione da Luiss University Press): con ogni probabilità fu lo stesso Dzerzhinsky a far forgiare le pagine del dossier, per seminare zizzania tra Usa, Cina e Giappone. La vecchia guardia bolscevica era scettica, Trotskij ambiguo (misteriosamente, quando fu ucciso dagli agenti di Stalin, stava, di nuovo, lavorando sul memoria-le), Bukharin persuaso fosse un falso: ma neppure a loro Dzerzhinsky, maestro all’incrocio di verità e menzogna, svela l’arcano. La guerra in Manciuria prima e la Seconda guerra mondiale poi rendono “credibile” il manifesto e nessuno lo rimette in discussione, con gli storici del presidente russo Putin a validarlo per sempre.
Inutilmente agenti transfughi da Mosca e testimoni del tempo, un articolo del New York Times nel 1932, provano a smentire la veridicità del testo, la sua forza ritorna prepotente. Il leader sovietico Nikita Kruscev lo cita nel 1960 in Indonesia come prova dell’imperialismo capitalista, nella stampa araba fondamentalista, vedi al-Qabas in Kuwait, le pagine presunte del barone Tanaka anticipano la crociata genocida degli infedeli. Nessun originale giapponese è mai stato ritrovato, i sovietici lo cercarono perfino tra le macerie fumanti dell’ambasciata imperiale a Berlino, 1945, rinvenendone solo una copia bruciacchiata, ma in tedesco. Anche l’ubiqua Wikipedia resta ambigua, non parlando apertamente di disinformazione. Questa è, mentre Tokyo, Washington, Mosca e Pechino tornano a schierarsi in armi, la morale tragica del Memoriale Tanaka: le bugie hanno le gambe lunghe, lunghissime, non corte, il fact checking, il debunking, con cui ci si illude di combatterle, sono spesso spuntati, perché, ben prima delle camere dell’eco dei social media, la forza possente di passioni politiche e interessi economici ci spinge a credere a quel che ci torna utile, prima e oltre l’evidenza dei fatti. La disinformazione non è bacillo da curare con sterili ricerche da laboratorio, è operazione bellica da battere sul campo, nell’umile consapevolezza che la sua forza è formidabile, perché si nutre delle nostre debolezze.
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