la Repubblica, 28 luglio 2021
Xi e la rivoluzione dello sciacquone
La grandezza di una nazione si misura, anche, dalla qualità dello sciacquone. Distrutti dalle Guardie Rosse perché troppo borghesi durante la Rivoluzione culturale, oggi i bagni sono il simbolo di civiltà e salute della campagna lanciata dal presidente in persona: un’altra Rivoluzione. Sì, quella delle toilette.
Dal 2015 a oggi governo centrale e autorità locali hanno già stanziato più di 3 miliardi di euro per costruire 100mila bagni ai quattro angoli della Cina nei siti turistici. Ma soprattutto in quelle aree rurali che il Partito ha appena fatto uscire dalla povertà e dove ha già ristrutturato 10 milioni di toilette nelle case dei contadini. Zone dove spesso i servizi igienici sono poco più che ripari di fortuna circondati da erbacce: buchi in mezzo ai prati incubatori di malattie. Ma, a quanto pare, Xi Jinping non sembra essere soddisfatto di come sta andando la sua crociata lanciata sei anni fa se è vero che la Xinhua – l’agenzia di stampa ufficiale – riporta che «il presidente ha sottolineato la necessità di portare avanti con maggior impegno la rivoluzione delle toilette mettendo in campo tutti gli sforzi per garantirne la qualità».
Può sembrare una sciocchezza, ma non è così. Almeno dagli inizi degli anni ’50 lo Stato ha fatto dell’igiene la sua battaglia “civilizzatrice”. Solo che negli ultimi 40 anni, con l’era delle aperture e delle riforme che ha portato a nuovi aeroporti luccicanti, strade più larghe e treni superveloci, ci si era dimenticati dei bagni. Per questo la campagna lanciata da Xi doveva servire a risolvere il problema una volta per tutte. E i “rivoluzionari della tazza” non hanno badato a spese. Spesso bizzarre. Wi-fi e prese per ricaricare i cellulari, tv a schermo piatto, frigoriferi, marchingegni per calcolare la qualità dell’aria e degli odori. Così come sistemi di riconoscimento facciale: forse per tenere alla larga qualche ladro di carta igienica.
Dai bagni pubblici ai corsi dopo- scuola. Sì perché in cima all’agenda politica di queste settimane in Cina ci sono pure le lezioni dei ragazzi. E dopo le big tech – da Alibaba a Didi fino a Tencent, che ieri ha annunciato la sospensione delle registrazioni su WeChat per “allinearsi ai regolamenti” visto che il Dragone sta preparando una legge sulla protezione delle informazioni personali per garantire un’archiviazione sicura dei dati degli utenti – ora la scure di Pechino si sta abbattendo su quelle aziende che offrono servizi di tutoring scolastico.
Un business enorme in Cina: quasi 85 miliardi di euro. Diventato il simbolo di quella “espansione disordinata del capitale” alla quale il governo ha dichiarato guerra. Per questo ora ha ordinato alle società di diventare no-profit: vietato quotarsi in Borsa e ricevere investimenti dall’estero. E a Wall Street gli effetti della stretta già si vedono.
Le ragioni sono anche, e forse soprattutto, demografiche. Pechino vede l’industria dei corsi extra-scolastici come uno dei principiali ostacoli all’aumento del tasso di natalità – vero cruccio della leadership comunista – poiché grava non poco sul portafogli dei genitori. Wang Ying, madre di una bambina che frequenta la seconda elementare, ha raccontato al Global Times di aver speso lo scorso anno 6.500 euro per i corsi doposcuola della figlia.
Il fatto che i loro figli siano i primi della classe è un’ossessione per i genitori cinesi: si inizia già da piccolissimi a prepararsi al “Gaokao”, l’esame finale che dà accesso alle migliori università. E, quindi, poi, ad un buon lavoro. Certo, tra le misure, ovviamente, l’attenzione è soprattutto sui ragazzi, sempre più sottoposti a stress. Ripetizioni vietate nel fine settimana e durante le vacanze. E appena si finiscono i compiti, via a nanna.