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 2021  luglio 28 Mercoledì calendario

I diari degli scrittori

Molti scrittori hanno lasciato detto nei loro testamenti che si dovevano distruggere le loro opere. Ma un dubbio sale spontaneo: se tenevano tanto a mandare al macero i loro scritti, perché non l’hanno fatto loro stessi? Perché lasciare a chi gli sopravviverà il difficile compito di rischiare un delitto letterario oppure di disobbedire alla sacra volontà dell’autore?
Credo che proprio in questa contraddizione stia tutto il dilemma. È come se l’autore lasciasse detto: io rinnego quello che ho scritto ma sta a voi decidere se conservarlo o meno. Come consegnare un cerino acceso in mano a chi non vorrebbe bruciarsi le dita.
Ricordo che Gioachino Belli aveva destinato al rogo tutte le sue belle e provocatorie poesie. Ma nel suo caso era comprensibile: lavorando per il Vaticano considerava pericolosi, per le reazioni che potevano suscitare nelle gerarchie ecclesiastiche, i versi che aveva pubblicato quasi sempre anonimi. Per fortuna i suoi eredi non gli hanno dato retta e oggi godiamo dei geniali compomimenti in romanesco che tutti ammiriamo e spesso ripetiamo a memoria.
Così è successo con Emily Dickinson che aveva nascosto in un cassetto le sue meravigliose poesie, pensando che le avrebbero gettate via, visto che nessuno voleva pubblicarle ed erano considerate incomprensibili e fuori regola per i canoni estetici dell’epoca. Ma lei era spinta dalla disperazione di non essere capita e non certo dalla voglia di autocensurarsi. Per fortuna la sorella Lavinia e la cognata Susy, le sole ad avere capito la sua originalità e la sua grandezza, hanno raccolto amorevolmente quel ben di Dio per consegnarlo ai posteri dopo tanta ignoranza e stupido conformismo. Aggiungiamo anche una certa cecità misogina. Oggi Emily Dckinson è considerata la più potente, la più misteriosa, la più originale protagonista della poesia americana.
Certo, bisogna capire perché un autore vuole rinnegare e far sparire i suoi scritti. Per paura di una condanna, come nel caso di Gioacchino Belli, o per pudore dei suoi più segreti sentimenti, come sembra sia il caso di Philip Roth, o perché le sue idee sono mutate in maniera troppo radicale per tenerne conto, o ancora per lasciare ad altri la responsabilità di frasi e parole che si sono scritte ma a cui ci si sente estranei. Forse la cosa piu saggia da fare è quella di lasciar passare del tempo, in modo che la temperatura dei pettegolezzi e della cronaca legata alla persona si raffreddi, e poi pubblicare ogni cosa.
Ricordo la faccia scavata e gli occhi malinconici di Ezra Pound quando è venuto in Sicilia quarantotto anni fa a ritirare il premio Brancati Zafferana. Si era pentito di avere aderito al nazismo, tanto che si era condannato al silenzio. Infatti non parlava, pur avendo il dono della parola. Era un silenzio di penoso isolamento, più per lui che per noi che ammiravamo i suoi Cantos pur non comprendendo i suoi scritti che esaltavano Mussolini. Credo di avere capito che avrebbe voluto cancellare i suoi scritti ideologici, ma non poteva perché ormai facevano parte dell’archivio internazionale, stampati, contestati e scontati con la pena di dieci anni di manicomio.
Credo che oggi si infurierebbe a sapere che il suo nome viene usato dai neonazisti che negano la storia. Non si poteva non interpretare le sue antiche adesioni come una contraddizione pagata caramente, qualcosa che riguardava un equivoco rapporto col sociale. Le sue poesie, come i romanzi di Céline, l’autore contraddittorio di Bagatelle per un massacro, dicono tutt’altro. I versi di Pound non corrispondono alle sue dichiarazioni di fede politica, come i grandi romanzi di Céline non corrispondono alle sue provocazioni ideologiche.
Alla fine viene da dire che le contraddizioni non si possono cancellare. Si debbono conoscere e chiarire. Sapere che esistono e affrontarle con il rispetto che si deve alla complessità della vita.
Ho sempre pensato che uno scrittore debba comunque mettersi a nudo. La sua credibilità sta nel coraggio di raccontare di sé, oltre che degli altri. Anche se chi scrive lo fa sempre, nonostante le pretese del distacco e della distanza dalla materia narrata. L’autore fa capolino comunque con le sue idee, i suoi giudizi, anche quando sono velati da grandi ostentazioni di estraneità.
Il racconto di un evento, di una vicenda, di un intreccio amoroso o sociale, non è una fotografia (anche se perfino le fotografie più anonime esprimono comunque uno stato d’animo), ma una intepretazione di fatti che vengono visti e rappresentati attraverso il filtro di una visione del mondo personale. Per questo la polemica accesa in questi giorni sull’impossibilità di parlare di ciò che non ci appartiene personalmente la trovo sballata. Non esiste l’oggettività in letteratura. Esistono i punti di vista, che sono storici; esiste l’autore che raccoglie storie (appartenenti a tutti) e le reinventa a modo suo. Non si può pretendere, come pensano alcuni, che il poeta o il romanziere debba parlare solo di ciò di cui è stato personalmente testimone.
Nel mio caso, tanto per fare un esempio, ho tenuto a lungo un diario e ci sono momenti in cui mi propongo di distruggerlo. Non perché conservi segreti di cui vergognarmi, ma per un pudico attaccamento a quei luoghi «reconditi e inaccessibili» che Jung chiama «la nostra interiorità».
E poi chissà quante lettere ci sono che ho spedito ad amici, ad amori lontani, di cui ho perso la memoria ma che per un senso di riservatezza e forse anche di timidezza (una timidezza innata che non mi abbandona mai, pur avendo imparato con gli anni ad affrontare il pubblico, e superare faticosamente il senso di privatezza) che verranno fuori quando non ci sarò più. Non ho mai scritto lettere d’amore pensando che saranno pubblicate dopo la mia morte, ma ne ho avuto consapevolezza una volta spedite, perse nelle nubi della dimenticanza.
I diari non li brucerò, ma ho lasciato scritto che andranno pubblicati venti anni dopo la mia morte. Le lettere chissà, dovrei rileggerle, ma non so più dove siano finite, ammesso che non siano già state distrutte. Sono sempre stata una appassionata scrittrice di lettere. Probabilmente dipende dal fatto che da quando sono tornata dal Giappone, adolescente, parlando più giapponese che italiano, ho sofferto di afasia. E questa afasia l’ho vinta piano piano leggendo tantissimi libri in italiano e scrivendo tutti i giorni nella nuova lingua che mi era tornata madre.
Ricordo una curiosa e profonda frase di Roland Barthes: «Scrivere è come giocare col corpo della madre». Proprio così. Scrivendo si gioca e si gioca con la carne, e si tratta di una carne che si trasforma in ritmo e musicalità. —