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 2021  luglio 28 Mercoledì calendario

Se Xi alza la voce la borsa trema

Il Dragone cinese sta sputando fuoco sugli investitori internazionali, creando panico nei mercati e sgomento tra imprenditori, economisti e politici occidentali. Dopo anni di lusinghe verso i rappresentanti del capitalismo americano e europeo, con il palese secondo fine di copiarne gli aspetti migliori, Pechino si sta scagliando contro le società più importanti del Paese, mettendo a repentaglio miliardi di investimenti provenienti dal resto del mondo e, forse, il futuro delle relazioni con i Paesi industrializzati.
È una mossa drammatica da parte di Xi Jinping, il (pre)potentissimo presidente cinese, che fa da controcanto economico all’aggressività politica dimostrata nei confronti di Hong Kong, Taiwan e persino gli Usa. Xi vuole fare sapere agli antagonisti di Washington, Bruxelles e Mosca che sta governando con un pugno di ferro – il suo è il regime più duro dai tempi di Mao – e che non tollererà dissenso, né interno né esterno. È così che si deve interpretare il recente giro di vite contro le aziende tecnologiche cinesi – che sono state “scoraggiate” dal vendere le proprie azioni sulle borse internazionali – il settore privato dell’educazione – a cui è stato negato il diritto di fare utili – e persino le imprese che consegnano cibo a domicilio – ree di aver pagato poco i dipendenti. La repressione di Xi ha completamente spiazzato gli investitori, facendo crollare i mercati. Ieri la Borsa di Hong Kong è precipitata a –10%, lo yuan ha toccato il livello più basso nei confronti del dollaro da aprile, mentre l’indice del “Dragone d’oro” del Nasdaq, che segue le azioni delle aziende cinesi quotate in America, ha bruciato 769 miliardi di dollari da febbraio. La paura di Wall Street è giustificata. La Cina di Xi non è la Cina dei suoi predecessori. Il credo introdotto da Deng Xiaoping negli anni ‘80, “lasciate che alcune persone diventino ricche prima degli altri”, è stato sostituito dal dogma di Xi sulla “prosperità comune”. Ovvero: basta con la sperequazione sociale, le ostentazioni di ricchezza e la celebrazione del successo dei pochi a scapito delle masse. È una politica satura di cinismo – la base di Xi è nella Cina rurale, nell’esercito e tra le classi medio-basse – ma ricca d’ironie per l’Occidente.
Molti dei provvedimenti promulgati da Pechino sono simili a quelli che gli Usa e l’Europa vorrebbero introdurre a casa propria. Basta guardare alla guerra della Commissione europea contro i giganti di Big Tech, alle battaglie degli stati americani per costringere Uber e il resto della “gig economy” a pagare il salario minimo ai dipendenti, o agli sforzi dell’amministrazione-Biden per ridurre il costo delle ripetizioni scolastiche. La differenza è che i sistemi democratici rallentano, limano e diluiscono questi provvedimenti perché, per fortuna, da noi il consenso va guadagnato, non imposto. Nessuno, per ora, ha il coraggio di opporsi a Xi ma la sua sterzata politica comporta comunque rischi significativi. Il primo è già visibile: la fuga degli investitori esteri, se dovesse continuare e si allargasse ai grandi fondi, priverebbe la Cina di una fonte fondamentale di capitali, liquidità e credibilità internazionale.
Il secondo pericolo è di natura interna: la reazione dell’enorme classe media cinese a una politica autoritaria volta a negargli diritti, beni materiali e aspirazioni sociali che erano stati dati per scontati (e incoraggiati) per quasi mezzo secolo. La nuova linea dura di Pechino è un test fondamentale della capacità di Xi di sfidare il resto del mondo, i mercati e gran parte del suo Paese. Gli investitori, Washington e Bruxelles devono prepararsi alle conseguenze. —