La Stampa, 28 luglio 2021
La crudeltà dell’eccezione
La bellezza delle Olimpiadi sta nella crudeltà dell’eccezione. A cadenza quadriennale si accantona tutto, stavolta per qualche ora si accantona persino il Covid, e si accantona il calcio, di cui è in corso un torneo olimpico per esodati: il ribaltamento delle priorità consolidate sta nel retropalco riservato ai gol, perché in scena ci sono il judo e la sciabola a squadre. Dura giusto un paio di settimane, ma sono due settimane intoccabili, di discipline incomprensibili, di volti sconosciuti che animano un turbine di emozioni e commozioni, dell’euforia romantica di veder confuse in un abbraccio transcontinentale le lacrime del vincitore e le lacrime dello sconfitto. La grandezza di Simone Biles è di essere andata più in alto della crudeltà dell’eccezione: lei non è la star di quando si accende la fiaccola, e nonostante pratichi la ginnastica, sport senza diritto di cittadinanza nella nostra vita quotidiana: lei è la dea di ogni giorno. Chiunque sa chi sia, conosce le sue gambe deflagranti, la sua agilità e la sua potenza celesti, e chiunque ha già perso il conto delle medaglie d’oro – quattro alle Olimpiadi e diciannove ai Mondiali – messe al collo a soli ventiquattro anni. I pochi rimasti all’oscuro avranno scoperto ieri questa divinità, quando s’è fatta da parte, cioè s’è fatta umana, perché sentiva sulle spalle il peso del mondo e dentro la testa le urla dei demoni. Doveva soltanto fare quello che sa fare meglio e che fa meglio di ogni avversaria, ma forse ieri non lo stava più facendo per sé: di colpo le toccava farlo, crudele eccezione, per le aspettative del mondo intero. Anche questa è bellezza.