Corriere della Sera, 27 luglio 2021
Giacosa e la gelosia per le sue figlie
Il 4 marzo 1900 il drammaturgo Giuseppe Giacosa scrisse alla madre Paolina Giacosa Realis una lettera ricca di auspici: «Una grande lietissima notizia: Pierina è sposa. Esce in questo momento di casa il suo promesso, dopo aver fatto il gran passo ufficiale… È un giovane di ventotto anni. Si chiama Albertini. Ora è direttore amministrativo del “Corriere della Sera”. Ma la sua posizione sarà presto assai più vistosa. Il Torelli, che ora è gerente della società del “Corriere”, deve dimettere, per gravi motivi di salute, questo ufficio, ed egli stesso mi disse che al suo posto sarà chiamato l’Albertini, il quale gode della piena fiducia degli altri soci che sono il Crespi, il De Angeli, il Pirelli e Luca Beltrami. Torelli e De Angeli mi parlarono di lui nei termini più calorosi… Io lo conosco da tre, anzi da quattro anni; è amico dei migliori amici miei: Boito, Pozza, Verga… Ho la mano che mi trema dall’emozione. Sono tanto contento… Cara mamma mia, cari miei tutti, vi abbraccio con tutta l’anima… E tu scrivimi a Venezia, Teatro Goldoni…».
Giacosa era in partenza per la città lagunare dove si sarebbero tenute le prove del suo ultimo dramma. Come le foglie aveva debuttato il 31 gennaio a Milano ottenendo un grande successo: le 15 serate al Manzoni erano andate esaurite – le ultime due erano state aggiunte per soddisfare le richieste – mentre da Mantova era partita una seconda compagnia per girare la provincia. Giacosa, in quel momento, era probabilmente il più famoso drammaturgo italiano e anche all’estero le sue opere erano molto richieste. L’esordio negli Stati Uniti nove anni prima allo Standard Theatre di New York con La dame de Chaillant, affidata all’impareggiabile Sarah Bernhardt: se la rappresentazione a Broadway non aveva coinciso con un trionfo personale, aveva comunque segnato uno dei momenti più alti della sua carriera, convincendolo ad aprirsi ad un pubblico sempre più esigente. Di lì a poco erano arrivati i successi di Tristi amori in Germania, le soddisfazioni per I diritti dell’anima, nel teatro parigino di Madame Aubernon de Nerville dove anche Henrik Ibsen proponeva le proprie opere, la vendita dei diritti di Come le foglie in Danimarca e in Svezia, la versione francese di Comme les feuilles, in allestimento a Parigi e destinata a cento repliche.
La fortuna girava finalmente dalla sua parte, ma lo scrittore non riusciva a stare in pace con sé stesso, lacerato dall’amore paterno verso le tre figlie, ormai in età di matrimonio, e dal pensiero doloroso di vederle andar via di casa. Nella lettera scritta alla madre si era limitato ad elogiare le virtù del futuro genero omettendo le proprie pene. Con la mamma non stava bene sfogarsi, ma con un amico come Antonio Fogazzaro non si era tirato indietro e in occasione del matrimonio della primogenita Bianca con l’ingegnere Alfredo Ruffini, nel 1897, aveva ammesso di non essere preparato: «La chiamavo ancora bambina e la trovai sposa, proprio da un giorno all’altro!» Non si trattava di gelosia – spiegava a Fogazzaro – anzi, era felice che le figlie si sposassero. Ciò che non sopportava era la rinuncia alla gioia di poterle guardare ancora come tre bambine, alla libertà di scrivere loro lasciandosi prendere dai sentimenti provati quando erano piccole, al piacere di evocare i dettagli di una vita trascorsa sotto lo stesso tetto. E quell’insopportabile sensazione di distanza fra lui e Bianca dopo il matrimonio adesso stava per contagiare la sua relazione con Piera.
Nell’agosto dello stesso anno, l’umore di Giacosa peggiorò, anche questa volta per un episodio riconducibile alle imminenti nozze della secondogenita. Luigi Albertini era diventato il nuovo direttore del «Corriere della Sera» il 13 luglio del 1900 e l’aveva appena invitato a scrivere un articolo per il giornale sulla regina Margherita, da poco vedova di re Umberto, assassinato il 29 luglio dello stesso anno.
Si trattava di un incarico gratificante, ma di nuovo Giacosa ravvisò un fastidioso conflitto fra il piacere del nuovo mandato e i tempi per la sua esecuzione. Albertini, secondo lui, aveva un difetto incompatibile con le sue abitudini: aveva ritmi di lavoro asfissianti e pretendeva la consegna degli articoli nei tempi stabiliti da lui. Trattandosi del direttore del «Corriere della Sera» e del futuro sposo di Pierina non poteva rinunciare all’incarico, né deluderlo. Eppure quella pressione era eccessiva. Aveva provato a spiegargli che una rigida scansione dei tempi di lavoro non lo favoriva nella scrittura, ma il suo appello non aveva intaccato l’intransigenza di Albertini.
Il 10 agosto, già in ritardo, gli scrisse da Colleretto. Esordì mettendo subito le mani avanti, chiamando a testimoniare la propria famiglia, al di sopra delle parti visto che a breve l’avrebbero condivisa: «Carissimo Gigio. A casa te lo possono dire. Tutto ieri e stanotte fino alle due. E non mi venne fatto nulla di presentabile…» Poi aggiunse delle scuse generiche. «Lo capisco e ho ragione che questo profilo non va fatto come un articolo di giornale. O almeno come di solito. Deve essere nutrito, serrato e pieno di garbo…» A metà della lettera cominciò la confessione. «Ad averci la mano è cosa di un giorno… Non ho né mente né abitudine a fare in fretta. Ho in mente tutto l’articolo, ma non mi viene di servirlo come va servito. Ho sporcato e stracciato una ventina di cartelle…» Infine, le scuse. «Non puoi sapere quanto mi rincresce non essere riuscito…» Di più non poteva aggiungere, era una resa incondizionata. Andò a capo. Senza fare commenti confermò la data delle nozze, previste per l’8 settembre, e chiuse con un accenno alla figlia: «Pierina mi pare più colorita». Nient’altro. Albertini non reagì. Era infastidito dalla lentezza del suocero, ma non era il momento di lamentarsi. Le occasioni per presentargli le rimostranze non sarebbero mancate negli anni successivi, specie quando «La Lettura» saltò l’uscita attesa il 1° del mese 3 volte su 12 in un anno.
L’8 settembre si celebrarono le nozze nella cappella di Santa Liberata, nel Canavese, a metà strada fra Colleretto e Parella (l’articolo sulla regina Margherita era uscito 4 giorni prima).
I presenti erano a conoscenza dello stato d’animo di Pin (com’era affettuosamente soprannominato l’artista) e non se ne faceva mistero. L’amico Arrigo Boito, rimasto a Milano ed impossibilitato a partecipare al matrimonio, gli scrisse: «… Una cosa è vera, ed è che ti sono immensamente affezionato e che della tua bella felicità così aperta e comunicativa gioisco intensamente. Ma oggi sento che la tua gioia non è senza un profondo rimpianto».
I testimoni di Piera – lo zio Piero Giacosa e Giovanni Verga – si prodigarono per tenere il drammaturgo su di morale, ma a molti risultò evidente che la partecipazione dello scrittore ai festeggiamenti fu condizionata più dalla malinconia che dalla gioia per un’unione che si prospettava felice e durevole nel tempo.
Al termine del banchetto Piera e Luigi salirono sulla carrozza e partirono per Torino, tappa intermedia del viaggio di nozze con destinazione Losanna Ouchy, sul Lago Lemano. Durante il viaggio concordarono a chi spedire dal Grand Hotel le prime lettere da sposi. Luigi si preoccupò del suocero: «…Un saluto anche a te in cui c’è una commozione che forse non immagini, un affetto dei più saldi. Pierina è presso di me… E tu che le vuoi tanto bene, che oggi le dimostravi quanta affezione le porti, devi esser lieto che io ti comunichi un po’ della mia gioia, pur così intima».
In quel momento, era probabilmente
il più noto autore teatrale italiano
e anche all’estero le sue opere erano richieste e riscuotevano grande successo
Giacosa decise di non rispondere al genero. Men che meno avrebbe scritto alla figlia! Temeva di rovinare l’atmosfera idilliaca del viaggio di nozze con la sua ottusa nostalgia. Si conosceva troppo bene per pensare di riuscire a scriverle una lettera equilibrata.
Luigi, invece, si rifece vivo la settimana dopo, sabato 15 da Losanna. Scelse uno stile sobrio ed alluse alla nascente «La Lettura» sperando di fare cosa gradita al destinatario.
«Mio carissimo Pin, un sole meraviglioso ci favorisce; la stagione è en son plein e noi in quest’incanto dimentichiamo tutto, all’infuori di voi. Non puoi davvero lamentarti: mai vi abbiamo fatto mancare lettere, e, se ci sono stati disguidi, la colpa non è nostra. Purtroppo invece noi non possiamo dire lo stesso di te; ma, nella speranza che tu stia preparando un altro articolo, ti perdono. Lo stai preparando davvero? E pensi alla rivista? Il tempo incalza. Se proprio non vuoi pensare a scrivere a me, almeno pensa e scrivi per me… Al ritorno spero di condurti una Pierina fiorente. Non si sciupa la piccina, te lo assicuro, e nemmeno prende di quelle sgridate… Ti dirò tuttavia che non le merita, perché è di buon umore, mangia, chiacchiera. È lunga nel vestirsi, quello sì; e, se dice che è pronta, abbisogna ancora di altri 20 minuti. Ma, tirate le somme, va bene, bene, bene, molto bene. Adesso per esempio è quieta, curvata sul tavolo, colla lingua di fuori, per reggere il gran peso della penna. È stanca, ma fra poco andiamo al pasto… Che cosa pagherei perché ci vedeste!»
Giacosa lesse la lettera e trattenne a stento le lacrime. Avvertì con un crampo allo stomaco il vuoto che la figlia aveva lasciato in casa, ma si convinse che aveva ragione Albertini: il tempo incalzava. Si era ripromesso di non scrivere agli sposi e che si sarebbe preoccupato soltanto del suo lavoro. A Pierina ci stava pensando il marito.
Il 18 settembre si recò a Torino per la prima piemontese di Come le foglie. Paola, la terzogenita, descrisse alla sorella la serata con una lettera inviatale a Losanna dopo il debutto. «Temevo che ci sarebbe stata poca gente; ma appena entrata a teatro mi sono riconfortata: un teatro rigurgitante. E sì che l’Alfieri è molto più grande del Manzoni e poi questa compagnia Talli è veramente migliore di quella di Andò. T’assicuro che l’esecuzione non poteva essere migliore, brava la Gramatica e bravissimi il padre e Tommy; ci sono state 24 chiamate e moltissime a papà solo… Papà è restato a Torino dove questa sera avrà un banchetto. Aveva poca voglia di restare ma Bouse gli ha lasciato capire che si sarebbero offesi se fosse partito. Arriverà però certamente domani mattina…»
Nonostante le acclamazioni e il successo riportato anche a Torino, Giacosa era ancora di pessimo umore e sempre per lo stesso motivo. Siccome prima del matrimonio aveva promesso alla figlia di mandarle notizie della rappresentazione, le inviò in Svizzera un laconico telegramma in cui la informava del successo della serata. Nessuna concessione agli affetti.
Quella notte dormì male, sempre più dubbioso sul suo comportamento, aguzzino dei propri sentimenti. E la mattina dopo si alzò dal letto deciso a disfare tutti i programmi: le avrebbe scritto, una sola lettera, l’unica ancora in grado di raggiungerla a Losanna prima del rientro in Italia! Contrariamente a quanto dichiarato alla figlia Paola, rinunciò a partire la mattina da Torino e si prese il tempo necessario per scrivere in santa pace.
«Mia cara Pierina, dovevo partire stamani alle 10½ ma poi ho pensato che a scriverti oggi da Colleretto, la lettera non ti avrebbe forse più trovata nel tuo bel paradiso di Ouchy. Ho rimandato la partenza alle 2 pom. apposta per scriverti perché almeno una lettera dal tuo vecchio genitore nel tuo viaggio di nozze ti deve pervenire. Sono stanco morto. Già ti telegrafai ieri del successo che fu veramente entusiastico, in tutto pari, se non maggiore a quello di Milano. Ieri sera dovetti trattenermi ancora a Torino per il banchetto…»
Al momento dei saluti – quello che temeva di più – si fermò: non aveva messo da parte le parole che gli servivano per chiudere. Rimase a riflettere a lungo. I suoi piccoli occhi scuri fissavano con struggente nostalgia il foglio. Non sapeva come congedarsi dalla figlia. Il drammaturgo, il librettista, il conferenziere, il futuro direttore de «La Lettura»: nessuno era capace d’ispirargli il saluto adeguato. Fintanto che non tornò nel suo ruolo prediletto, quello della firma, e concluse: «Addio Pierina mora bella e buona. Se tu sapessi quante volte in questi giorni ho sentito nelle orecchie quel tuo uhm, uhm, continuo ronzio di nanna che facevi quando ti prendevo la testa nelle mani e te la premevo tanto tanto sulle mie spalle. Cara bambina mia con quanta tenerezza penso a te e ti invoco tutti i beni della terra. Ma non inteneriamoci, come dice la commedia. Mando a te e a Gigio tuo tutto l’affetto del mio cuore. Papà».