la Repubblica, 27 luglio 2021
La dieta degli dei
Gli alimenti principali della cucina del Mare Nostrum sono ritenuti un dono del cielo. E, non a caso, compongono la cosiddetta triade mediterranea
di Marino Niola
Allora il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi». Con queste parole il libro dell’Esodo afferma a chiare lettere la sacralità del pane. Un’idea comune, peraltro, a tutti i popoli mediterranei che considerano questo cibo, un dono divino. Al pari dell’olio e del vino, gli altri alimenti che caratterizzano le cucine del Mare Nostrum. Insieme compongono la cosiddetta triade mediterranea. Non a caso la cultura greco-latina costruisce intorno a questi alimenti un imponente apparato di regole religiose, narrazioni mitologiche, pratiche rituali, credenze superstiziose, metafore poetiche, norme dietetiche. E quando un popolo impiega così tanta energia collettiva per sbalzare dalla quotidianità una cosa, un luogo, un gesto, un cibo è per affermarne solennemente l’importanza vitale. Che è un po’ come passare un colpo di evidenziatore sulla tavola.
Come diceva Guido Ceronetti, «è l’interdetto sacro che protegge la natura, non la buona educazione, non la legge civile. Se l’ulivo è sacro a un Dio, l’ulivo non sarà tagliato». Ecco perché all’origine degli alimenti base del Mediterraneo ci sono tre macro nutrienti per tre grandi divinità. Perché, a ben guardare, la sacralizzazione è la prima forma di certificazione e di tutela, un doc prima del DOC, una denominazione di origine consacrata.
Nel mondo antico l’universo cerealicolo è posto sotto il segno di Demetra – da Demeter, letteralmente dea madre – nonché di sua figlia Kore, detta anche Persefone. Le due nel mondo romano diventano rispettivamente Cerere, da cui il nostro termine cereali, e Proserpina. La prima è la signora delle messi e della fecondità. La seconda simboleggia invece il ciclo del grano e degli altri frutti, caratterizzati dall’alternanza stagionale tra semina e raccolto. Un legame nato quando la giovane Persefone viene rapita dal dio degli Inferi Ade, per i latini Plutone, che se la porta sottoterra e la sposa seduta stante. Demetra, infuriata per la fuitina, ottiene da Zeus che la fanciulla passi l’autunno e l’inverno nella tenebrosa dimora del marito, per tornare alla luce del sole in primavera e in estate, come una spiga che spunta dalla terra.
Così le antiche religioni mediterranee santificano il ciclo della morte e rinascita delle messi, una passione e resurrezione del grano la cui eco simbolica giunge fino al Cristianesimo.
Negli Inni Orfici, una raccolta di preghiere del secondo secolo dopo Cristo, Demetra viene invocata come «custode dell’aia», «accumulatrice di spighe», «patrona della semina» e «prima aggiogatrice di buoi». Insomma, la dea viene identificata con l’agricoltura stessa. Tanto che a lei e a sua figlia si offrono in ex voto vomeri ed aratri e si sacrificano maiali selvatici, perché distruttori delle colture. E per essere più vicini alla grande madre, i devoti che visitano i suoi santuari mangiano il ciceone, un cibo a base di farina sottile, acqua bollente e mentuccia. Un semolino rituale.
E se il pane lo dobbiamo alla Dea Madre, per l’olio siamo in debito con Atena, la vergine che ha inventato l’extravergine. Ad Atene, città che prende il nome dalla dea, anticamente l’olivo sacro è considerato immortale, come una divinità. Al punto che si dice sia rifiorito prodigiosamente dalle ceneri dell’Acropoli incendiata dai Persiani nel 480 avanti Cristo. E ancora oggi ci si può fare un selfie davanti alle sue fronde argentate. Questo albero fruttuoso e generoso rappresenta simbolicamente la continuità della polis. E per questa ragione quando gli Efebi, cioè i giovani ateniesi, escono dall’adolescenza per fare il loro ingresso nell’età adulta, giurano di difendere la patria chiamando a testimoni proprio le moriai, gli ulivi consacrati a Zeus Morios. Il valore di questa pianta e delle olive è tale che ad Atene lo sradicamento o il danneggiamento dell’ulivo sacro è stato a lungo punito con la morte.
Non è da meno la cultura ebraica dove la sacralità dell’olivicoltura viene fatta risalire addirittura al tempo della creazione. Il primo seme oleario sarebbe caduto dal cielo sulla tomba di Adamo. E nel Sancta Sanctorum del tempio di Gerusalemme, secondo il Libro dei Re, Salomone fa porre due cherubini colossali scolpiti nell’ulivo.
Il terzo elemento della triade è il vino, un dono di Dioniso, per i Romani Bacco, il dio che diventa liquido come la vite e spumeggia nelle coppe. Il nume straniero che attraverso l’ebbrezza fa affiorare il lato nascosto del sé, quello straniero che si trova in fondo a noi stessi. Dioniso, seguito dal suo corteggio di menadi invasate e di satiri inebriati, porta il caos dovunque arrivi. Ma è un caos positivo, creativo, una forma di apertura all’altro, problematica ma necessaria. Proprio per questo, l’intensità del rapporto con Dioniso deve essere accuratamente calibrata. Proprio come fanno i Greci che miscelano sempre l’acqua al vino per aumentarne il potere socializzante e diminuirne quello inebriante.
Successivamente il Cristianesimo importa quasi senza soluzione di continuità gli alimenti della triade nel suo sistema simbolico, ma con un decisivo mutamento di senso. Facendo del pane e del vino le sostanze eucaristiche del corpo e del sangue di Cristo. Il dio incarnato, nato a Betlemme, che in ebraico significa “città del pane”, diventa liquido proprio come Dioniso e come lui porta il fermento in tutti i luoghi che visita. Tanto che nel Vangelo di Matteo Gesù dice di sé: «Ero straniero e mi avere accolto».
Insomma, il posto delle tre divinità pagane viene occupato da un dio che è uno e trino. E che l’olio ce l’ha nel nome, visto che Cristo, dal greco Christos, significa unto. Lo stesso significato dell’ebraico Masiah, da cui il nostro Messia. Del resto, i momenti cruciali della Passione si svolgono nel segno dell’olio, del vino e del pane. Dopo l’ultima cena, infatti, Gesù va a pregare nel giardino dei Getsemani, che in aramaico significa frantoio, e che si trova ai piedi del Monte degli Ulivi, detto anche il Monte dell’unzione, perché con l’olio estratto da quegli ulivi venivano consacrati i re e i sacerdoti. In questo senso con il sacramento della comunione i cristiani chiudono il cerchio aperto dalle religioni precedenti, arrivando simbolicamente a mangiare Dio.
Oggi le agenzie internazionali, come l’Oms, elevando il modello alimentare mediterraneo a modello ideale di benessere e di salubrità, di convivialità e di sostenibilità, non fanno che mettersi su una scia aperta dalle prescrizioni religiose. Ne raccolgono il testimone, limitandosi a sostituire la salvezza dell’anima con la salute del corpo e dell’ambiente. E il gioco è fatto.