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 2021  luglio 27 Martedì calendario

Marcello Fois racconta la sua Sardegna che brucia

Tra il 23 e il 24 Agosto 1971 il Monte Ortobene fu distrutto dalle fiamme. Avevo undici anni e dal balcone di casa, a Nuoro, potevo vedere l’entità di quella tragedia sotto forma di nuvole scurissime che avevano trasformato in poche ore una mattinata assolatissima e secca in una notte precoce. Mio padre mi stava a fianco muto. In verità non è che mio padre parlasse granché, ma la qualità del suo silenzio in quella circostanza mi parve spaventosa, di una pasta diversa. Il fuoco si mangiava querce e quercioli e arroventava i graniti, uccideva qualunque essere vivente trovasse sulla sua strada. Francesco Catgiu, le vittime non sono mai anonime, gli incendiari sì, fu trovato carbonizzato qualche giorno dopo: si era ostinato a tentare di mettere in salvo il suo gregge dalle fiamme. Altre quattordici persone rimasero gravemente ferite nel tentativo di strappare alle fiamme quanto era possibile. A tavola non si parlò, anzi di fronte all’ennesimo telegiornale, mio padre spense il televisore, perché, allora più che ora, una notizia trasmessa alla televisione rendeva quella stessa notizia non certo più vera, ma, semplicemente, più atroce.
L’odore di bruciato aveva invaso ogni angolo della casa ed era, immensamente amplificato, un odore non molto diverso da quello che potevo sentire nelle notti d’inverno a casa dei nonni col camino acceso. Sapevamo di fuliggine da sempre, noi barbaricini, non di formaggio come badavano a ribadire i detrattori, ma di legno buono bruciato, assorbito dagli immensi camini della cucina dove tutto avveniva: il pranzo della domenica, la cottura del pane, il rinfresco per un battesimo, l’accoglienza dei parenti della sposa o dello sposo, il compianto per il defunto. Oltre il balcone di casa, in quell’agosto, lo spettacolo era atroce, in senso etimologico. Un drappo nero, atro, si era posato sul verde brillante e a tratti sanguigno del bosco. Qualche anno dopo ci avrei pensato da scrittore, ma allora non ero nient’altro che un bambino spaventato dall’entità di una tragedia che nemmeno gli adulti intorno a me riuscivano a ridimensionare.
Quello fu il primo rogo. Quello di cui ebbi più paura. Sbagliando, mi disse mio padre, perché non è esattamente dei roghi che bisogna avere paura, ma dei delinquenti che li appiccano. Ecco che nella mia mente di bambino stava avvenendo una piccola rivoluzione, perché non avevo affatto concepito che un incendio potesse avere un’origine dolosa. Si ha un’idea straordinariamente concessiva del mondo da bambini. Io pensavo che l’origine di tutto risiedesse nei fatti della natura, come si trattasse di un vulcano che si risveglia o di un terremoto improvviso. Così l’avevo immaginato quell’incendio. Ma in quell’agosto del 1971 fui costretto a trovare in me le ragioni sufficienti per provare a spiegarmi l’inspiegabile. Con angoscia provavo a raccontarmi che chiunque avesse dato fuoco a quell’angolo del mio mondo, l’aveva fatto senza volerlo, per distrazione, per ingenuità. Si diceva che l’abitudine di bruciare le stoppie con roghi controllati potesse generare roghi totalmente incontrollati, bastava un giro di vento imprevisto, una scintilla trasportata sul seccume, il lavoro di un contadino non particolarmente esperto. Si diceva insomma che gli umani falliscono e la fatalità fa il suo corso. Poi si diceva che c’era un interesse preciso ad appiccare fuochi, anche se questo significava mandare in fumo, fuor di metafora, interi patrimoni boschivi. E questo perché nella lacrimosa antropologia dei perdenti ha un senso castrarsi per far dispetto alla moglie. Così i piromani potevano rappresentare quella fascia delinquenziale vigliacca che impone anonimamente il proprio nichilismo al mondo. Alcuni spiegavano questo fenomeno come un sedimento della mentalità agro pastorale che prevedeva di rigenerare terreni sterili attraverso il fuoco.
L’agro pastorale in Sardegna funziona sempre, spiega molte cose paradossali: dai roghi estivi, alla cementificazione delle coste. L’agro pastorale sistema ogni cosa e la spinge l’acceleratore su quella espressività folklorica nella quale sembriamo così a nostro agio. Si possono offrire spiagge, mari cristallini, vips, e incendi epocali. Si può cioè pretendere di essere contemporanei e arcaici alla stesso tempo, in rapporto alle esigenze momentanee. Si può invocare assistenza come se fossimo investiti da calamità naturali e invece siamo investiti da una profonda, inesorabile, calamità antropologica. Penso al bambino che ero e al fatto che non sono più autorizzato a trovare una giustificazione e penso costantemente al silenzio di mio padre. Era un mutismo dell’impotenza, ora lo capisco. Il mutismo di una persona semplice che capiva anche quanto non riusciva a spiegarsi. E che ha voluto che studiassi, che mi istruissi, perché a me non capitasse mai di dover subire una tragedia senza avere le parole per raccontarla, o senza avere un patrimonio critico sufficiente per darle un senso.
Oggi la tragedia del Montiferru è rimbalzata all’onore di tutte le cronache con lo stesso appeal di cui si parla dell’ultimo vip sbarcato in costa. Ma nonostante quell’inferno nell’isola felix, tre, quattro, mesi all’anno, la vita continua. Il fenomeno starà sui giornali, telegiornali e sui social finché non si tratterà di trarre conclusioni. L’amministrazione Regionale chiederà lo stato di calamità ambientale, nonostante si tratti di terrorismo: le torri gemelle non sono cadute per un problema strutturale e quei ventimila ettari di boschi e macchia non sono stati consumati da un fenomeno naturale. Gli abitanti del posto lamenteranno di essere stati lasciati soli, anche se in una società realmente solidale e non individualista quale noi siamo, nessuno è mai solo. Nell’incapacità di concepire contemporaneamente diritti e doveri, la gara sarà quella di trovare il colpevole di turno sempre fuori da noi, nell’esercizio dei poveri, e cioè di coloro che si sentono costantemente in credito col mondo e mai in debito. E forse varrebbe la pena di provare a riflettere su chi e cosa ha partorito i piromani, quale punto di vista, immutato e immutabile, li ha generati. Quale invidia sociale, quale livore, li ha guidati. Quale azione politica li ha legittimati a pensare che il proprio interesse sopravanzasse quello della propria comunità. Si scoprirebbe che sono bravissime persone, che ci vivono accanto e che hanno tristemente concluso che ogni promessa e ogni impegno non verranno mantenuti.
Brave persone che hanno dovuto prendere atto del fatto che il mondo che gli era stato prospettato non ha un posto per loro, perché chi gli ha giurato che sarebbe bastata l’università della vita per farcela, ora, di fronte alla propria pochezza, ha cambiato idea. Brave persone che hanno dovuto fare i conti con le proprie endemiche incapacità di essere nient’altro che creature assistite, carne da cabina elettorale. Brave persone supportate da un’afasia in veste d’invettiva formale. Brave persone, vigliacche e criminali, inconsapevolmente protette da un sostanziale silenzio di tomba. Come quello di mio padre. E oggi capisco, scrivendo di lui, che finalmente lo faccio parlare. —