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 2021  luglio 25 Domenica calendario

Su "Memè Scianca" e "Bobi" di Roberto Calasso (Adelphi)

Una volta Roberto Bazlen — solo per alcuni Bobi — disse a un giovane Roberto Calasso che tra le varie strade percorribili nella vita c’era anche quella che se si partiva dai libri ad essi occorreva tornare. Fu un’immagine circolare in qualche modo definitiva. Credo che aver tenuto fede, per lungo tempo, a questo insegnamento abbia permesso al ragazzo di allora — che si muoveva con disinvoltura tra Adorno, il surrealismo e il mana — di lasciar fuori dalla porta mentale l’idea di dover raccontare la propria infanzia. Anche se per farlo avrebbe dovuto ricorrere al libro. Non che nella lunga attività di scrittore egli non abbia sfiorato alcune zone private (penso ad alcuni riferimenti che si rintracciano nella lunga intervista comparsa qualche anno fa sulla New York Review of Books), ma tutte le volte che questo è accaduto è stato attraverso i libri e le altrui storie raccolte e narrate in quella straordinaria avventura intellettuale che Calasso ha chiamato l’Opera — da La rovina di Kash a La Tavoletta dei Destini — nella quale è racchiusa una certa idea di “letteratura assoluta”. Può un “assoluto” tollerare la presenza mutevole di un’esistenza semplicemente filtrata attraverso il ricordo? Occorre una certa temerarietà per riuscire a far convivere, il remoto e il vicino, il Calasso autore con il Calasso che si abbandona al dondolio ipnotico dell’infanzia. Ma il risultato è sorprendente se ricondotto ai due libretti appena pubblicati, talmente scarni e incisivi da far pensare all’essenzialità di un graffito che spunta improvviso da una grotta della memoria. Si tratta di Memè Scianca (un soprannome sibillino che l’autore in qualche modo non sa ricostruire con esattezza) e di Bobi. Mentre il primo ha un’ambientazione nell’infanzia fiorentina, l’altro ci consegna gli anni romani e l’incontro fondamentale con Bazlen. C’è una chiara contiguità biografica tra i due libri (ed è giusto leggerli in sequenza), ma è come se ciascuno si alimentasse di una trasparenza originaria che solo il luogo che la contiene riesce a rendere evidente. Firenze, dicevo. Arricchita da alcuni episodi che rivelano la storia di un bambino in equilibrio tra normalità ed eccezione: il campetto di calcio su cui nasce l’amicizia con Enzo Turolla (che lo istraderà alla lettura di Proust), le figurine, avidamente comprate all’edicola, le prime travolgenti letture (Cime tempestose, l’Orlando furioso, i gialli, Simenon ma anche gli angloamericani come Van Dine, Wallace, Stout, Cheney), la scoperta della mitologia, i versi di Baudelaire che il bambino manda a memoria. È il Roberto nato durante la guerra, che attende con occhi impazienti, dalla finestra dello studio paterno, il giorno del passaggio delle Mille Miglia. La sua è un’infanzia colta, a tratti solitaria, arricchita dai primi sofisticati interessi musicali, vissuta attraverso la presenza di un padre, straordinario giurista, e di una madre che si è laureata su Plutarco con Giorgio Pasquali e che gestisce con fermezza e apprensione le difficoltà che la famiglia vive negli anni duri del conflitto. Fino alla rivelazione dell’episodio più drammatico: l’arresto — insieme a Renato Biasutti e Ranuccio Banchi Bandinelli — di Francesco Calasso accusati dell’omicidio Gentile. Seguono settimane di angoscia e la quasi certezza di un’esecuzione imminente. Le testimonianze favorevoli di Benedetto Gentile, figlio del filosofo, e del console tedesco in Italia Gerhard Wolff salvano i tre ostaggi. La scrittura di Calasso sembra fatta da colpi di vento che, per un attimo, spalancano le vite di personaggi solo sfiorati. Ecco stagliarsi Frau Bloch, amica dei genitori, che finirà deportata ad Auschwitz. Greta è il suo nome; è stata amante di Kafka dalla cui relazione, così sostiene la donna, sarebbe nato un figlio morto giovanissimo. L’arte della consistenza biografica non richiede argomentazioni prolisse. Quando Calasso rievoca Giorgio Pasquali, gli bastano poche righe per estrarre il succo teatrale di un filologo straordinario preda della gelosia coniugale. Memorabile la paginetta dedicata alla famiglia Pasternak, legata all’amicizia del nonno Ernesto Codignola. Insigne pedagogista, Ernesto fu agli occhi del nipote soprattutto l’editore che diresse la Nuova Italia come fosse parte organica della propria visione filosofica (che molto doveva a Gentile). L’infanzia di Calasso — guidata da uno stile tardo — ci trasmette la stessa emozione di certe pagine benjaminiane, dove il passato si dà un appuntamento segreto con il presente. Se Memè Scianca risponde alla stessa intermittenza mentale con cui Proust scandì il suo universo mondano, Bobi riflette un percorso apparentemente più compatto e lineare, definito da una consapevolezza giovanile segnata appunto dall’incontro con Bazlen. Gli anni romani di Bazlen furono affollati di presenze mondane dalle quali si lasciò solo sfiorare. Fu Elémire Zolla a condurre Calasso da lui. Bazlen viveva in una stanza ammobiliata di via Margutta. A quel primo incontro c’era anche Cristina Campo che aveva appena tradotto le poesie di William Carlos Williams. Il giovane osservava incantato quel triangolo, il cui vertice era Bobi, discutere della traduzione. Dopo quel giorno cominciarono a vedersi da soli. Due lati colpiscono della natura di Bazlen: l’indefinibilità del ruolo, che è la ragione profonda del suo aver scelto Roma come luogo nel quale vivere; e il complicato rapporto con la scrittura. Era nota l’insofferenza che gli provocava la macchina da scrivere. Che fu per lui come tentare di portarsi un dinosauro al guinzaglio. Tra i pochi libri che sognò di scrivere, uno avrebbe dovuto essere sulla sua vita e i suoi ricordi. Rinunciò. Resta l’essenziale di ciò che scrisse, tra cui le “lettere editoriali”. Qui, fatalmente, si giunge all’Adelphi e a ciò che Bazlen ha rappresentato per la casa editrice. Su tutto questo è cresciuta nel tempo una specie di letteratura parallela che ha contribuito a porre in risalto il ruolo e l’importanza di un’impresa editoriale che non ha avuto eguali dagli anni Sessanta in poi. Si rievocano i nomi di alcuni protagonisti: Luciano Foà e Claudio Rugafiori, Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Sergio Solmi e il giovane Calasso che così mette a fuoco quell’inizio folgorante: «L’opera compiuta di Bazlen fu l’Adelphi. Definibile con una frase che mi disse il giorno in cui me ne parlò: faremo solo i libri che ci piacciono molto». Bazlen sapeva cogliere affinità profonde tra libri anche molto diversi, relazioni che di solito sfuggivano ai più. Il senso della “Biblioteca Adelphi” — a oggi con più di 700 titoli — sta tutto qui. Questa singolare figura di triestino — decisiva per la ricostruzione di una singolarissima mappa letteraria europea — fece appena in tempo a vedere il primo dei libri che quella collana avrebbe pubblicato. Bazlen morì nel luglio del 1965. Non lasciò nulla che si potesse intendere come un’opera. È lecito supporre che il ragazzo, percependo quel vuoto come qualcosa da colmare, abbia da un certo punto in poi disegnato quella costellazione fatta di undici parti. Era l’Opera, una diversa “saga familiare” — composta da immagini, idee, gesti — l’omaggio segreto al più invisibile dei maestri.