Specchio, 25 luglio 2021
Biografia di Irma Testa raccontata da lei stessa
rma Testa è una pugile e non ha mai visto «Rocky», è una donna e ha combattuto alle Olimpiadi, l’unica in Italia fino a Tokyo. Ormai non è più sola, ai Giochi ci sono altre tre azzurre però lei resta unica. Ha iniziato quando non c’era strada, se la è dovuta aprire per conto proprio e ha capito presto che non ci sarebbe riuscita solo a forza di pugni.
Si definisce guerriera, gioca con le ombre e ha paura solo dei rimpianti «per questo ho sempre rischiato». Ha 23 anni ed è nata e cresciuta a Torre Annunziata, quartiere Provolera, nome storpiato da una fabbrica di polveri che ormai non c’è più, ma le esplosioni di disagio restano. Degrado e passione, una miscela che può portare al meglio e al peggio quando cambi strada all’incrocio. Irma al bivio è entrata nella «Palestra dei campioni». E anche se si aspettava il contrario, non l’hanno buttata fuori, o forse lei si è guadagnata il diritto di stare dentro.
Si è presa il posto ai Giochi con un torneo impeccabile e adesso «arriva il bello, la parte facile, quando sali sul ring e ti senti, libera, leggera, felice, se mi tengo stretta questo stato d’animo non mi ferma nessuno».
Come si fa quando si punta a una medaglia?
«Qui il segreto è tenere fede al mio stile. Non posso dire come andrà, però ho le idee chiare: nel 2016, a Rio, mi ero data grandi obiettivi e poi non sono riuscita a controllare nulla, ora sono più matura e non mi lascerò trascinare dalla foga. So quando devo spingere».
Quando?
«Non perché mi rendo conto che c’è il mondo in diretta. Non per quello che si muove intorno a me. Il rumore, l’attenzione, gli interessi, la tensione. Il ritmo lo devo dettare io, questo è il mio tempo. Ho sempre sentito una sorta di guida del destino sul mio percorso. Le Olimpiadi hanno aperto alle donne nel pugilato l’anno dopo il mio ingresso in palestra e io ho realizzato subito che dovevo lasciare la mia città e trovare una sicurezza economica per fare la pugile ad alto livello».
Da Torre Annunziata ad Assisi, centro Federale, che viaggio è?
«Sembra nulla, io in Umbria ho trovato l’America, non sapevo neanche che cosa fosse un fisioterapista. Va detto che allora la mia regione era l’unica ad accettare le donne: è la terra del pugilato e guardava avanti».
Quindi nessuna discriminazione?
«Hai voglia. C’eravamo e non dovevamo esserci. Eravamo 5 o 6 bambinette, ovviamente con un maestro che credeva in noi, ma quando lui non era lì potevi sentire di tutto. "Chi vi allena mo a voi?", "State alla larga" "Tanto fate ridere". Certi sguardi, risatine, pazienza. Il nostro allenatore, Lucio Zurlo, ci ha insegnato a concentrarci sulle cose importanti».
Quando torna nella palestra degli inizi che cosa vede?
«La strada che ho fatto. Ad Assisi ci sono arrivata a 14 anni, mi mancava mia mamma, non sapevo fare una lavatrice. Ero spaesata. Seguivo gli orari che mi mettevano in mano, mi sedevo in mensa, ma non sapevo dove stavo. Quel posto mi ha costruita. Da junior eravamo in tre e le quattro senior allora mi parevano irraggiungibili, anche se stavano appena un passo avanti. Oggi abbiamo tutte le categorie, i numeri sono aumentati e il super vertice che vedete qui a Tokyo è una conseguenza».
Quattro qualificate, nessun qualificato.
«Più ci danno e più rendiamo, questo è il messaggio: se le donne hanno le stesse condizioni degli uomini raggiungono i risultati. Non siamo pari perché partiamo da condizioni ben diverse, ma sappiamo che dobbiamo farci vedere quindi ci muoviamo rapide, ci diamo da fare. A Tokyo devono vederci per forza: ci siamo solo noi».
Lo sport è più avanti della società?
«Come sempre. Ma intanto la linea delle statistiche sulla parità sale e io che cinque anni fa ero una mosca bianca sto con altre tre. Ti fa sentire subito più forte».
Stupite dell’assenza dei ragazzi?
«Dispiaciute. Si era capito che per loro non fosse un momento d’oro ma così è una bella botta. Avrei preferito averli qui».
Sfatiamo qualche luogo comune. La boxe è ancora uno sport per soli uomini?
«Nella percezione sì. L’anno in cui ti prendi lo spazio e quello in cui te lo riconoscono non coincidono. Sono grata per quello che abbiamo fatto insieme alle altre azzurre. Abbiamo aggiunto delle pagine importanti nel libro della boxe che, fino ad oggi, è stata sempre raccontata da maschi. Per una volta, a scrivere siamo noi. Regalando poesia e bellezza».
Le donne sanno fare squadra?
«Guardateci qui, siamo amiche, compagne, stiamo sempre insieme, ci sosteniamo».
La boxe femminile per il grande pubblico è ancora «Million dollar baby»?
«Purtroppo sì, però meno di prima e speriamo che a un certo punto quello diventi un bel film che racconta poco del nostro mondo. Qui però non è una questione di genere, piuttosto di cultura».
Come andrebbe raccontata la boxe per essere vera?
«Il problema non è il racconto è la visibilità. La boxe era uno degli sport più seguiti, andava in tv, ascolti pazzeschi, palazzetti pieni, Las Vegas, incontri attesi anni. Adesso quel tipo di sfide sono sempre più rare e il resto dei combattimenti è clandestino, quindi la boxe non la vede più nessuno e resta l’idea, magari romantica, ma pure un po’ isterica dei film. Come se tutto fosse un eccesso. Per me il pugilato è soprattutto equilibrio».
È ancora una noble art, come da definizione storica ?
«Nobilissima, insegna il rispetto, impone l’attenzione».
Mancano i grandi nomi allora?
«I campioni ci sarebbero. Lo sportivo che guadagna di più al mondo è Floyd Mayweather, ha gli stessi follower di Ronaldo e viene da questo sport. La tradizione non è mai finita, solo che si guarda altrove, al calcio, solo quello e intanto ci si perde la classe di Loma?enko».
Colpa di Rocky? Cerchiamo la storia e non il campione?
«Io Rocky non l’ho mai visto. Dovrei? Non so, per me il pugilato è altro. Correttezza, valore. Ho visto "Ali", con Will Smith, affascinante eppure fatico a trovare al cinema quello che respiro quando combatto o vedo gli altri farlo».
Il vostro è il solo sport in cui gli arbitri giudicano liberamente. Ci sono le regole, ma non un sistema fisso come quello che regola la ginnastica.
«Ecco, eppure si contesta poco nonostante gli scandali che ci sono stati, ora la federazione internazionale è commissariata ed è il Cio a gestire la Boxe internazionale. Sta andando bene».
Quanto male fa un suo pugno?
«Se non fai pugilato, a nessun livello, ti stendo, nel mio sport invece non sono una di quelle che fa malissimo, sono precisa, porto i colpi a segno. Prima ero aggressiva, strappavo, ora sono chirurgica e molto, ma molto tecnica».
Fra un turno e l’altro come passerà le ore chiusa al Villaggio?
«Con "Lupin", su Netflix. Me lo sono scaricato tutto e ho sempre da parte qualche puntata di "Grey’s Anatomy", come relax e anche come visione di conforto. Qualcosa che mi faccia sentire a casa e mi tenga tranquilla».
Scaramanzie?
«Qualcuna, poca roba, una volta portavo sempre la stessa biancheria intima, si è logorata e per cinque minuti ho pensato "e ora?". Ho vinto e trovato la risposta "ora basta"».
Se sale sul podio porta la medaglia a Torre Annunziata a quelli che non la volevano allenare?
«A proposito di quelle piccole scaramanzie rimaste... E poi non me li ricordo neanche più. Di gente che avrà pensato "ma che vuole questa" ne ho percepita tanta, di persone che abbiano avuto il coraggio di dirmelo in faccia ne ho viste poche».