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 2021  luglio 25 Domenica calendario

L’ultima battaglia sul caso Yara

Se sali verso Bergamo alta, quando le strade si stringono, i vicoli diventano budelli, la storia orobica si riflette dai vessilli, statue e dai pennacchi, incontri la splendida chiesa di sant’Alessandro, entri e incroci i languidi occhi azzurri velati di lacrime di Laura Bossetti, sorella gemella di Massimo, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre del 2010 mentre tornava a casa, dopo la palestra a Brembate. È lì, lontana dalla curiosità che richiama, discreta in piedi nel terz’ultimo banco a destra, in bilico su quella volontà di sparire che si scontra con il desiderio di verità. Un paio di panche più avanti è genuflesso in preghiera Benedetto Maria Bonomo, difensore di Ester Arzuffi, mamma di Bossetti, quella che fino all’ultimo ha negato che suo figlio potesse essere figlio di un’avventura con l’amante e quindi l’assassino. Sono tutti qui. Assistono in silenzio al funerale di Giangavino Sulas, uomo perbene e cronista di razza, uno dei pochi, pochissimi ad aver approfondito fino all’ultimo sulle colonne del settimanale Oggi, i chiaroscuri di quello che rimane uno dei più sconvolgenti delitti italiani, sostenendo in tv a Quartogrado l’innocenza del muratore di Mapello, condannato in via definitiva all’ergastolo nel 2018. Laura Bossetti ha chiesto di cambiare cognome, per affrancarsi dall’onta devastante dell’ignominia schiacciata dall’ombra lunga che le colpe del fratello stagliano sulla sua vita e guardare oltre, «mia figlia, mia figlia – ripete come un mantra alle amiche – devo pensare a mia figlia». E la prefettura di Bergamo ha dato il nulla osta alla richiesta della sorella, dando così nuova identità. Il fratello Massimo Bossetti, per usare un eufemismo, non ha apprezzato questo passo indietro: «Un gesto pianificato e violento – ha reagito - che la esclude dalla famiglia Bossetti». Insomma, è fuori. Peccato, perché proprio ora il fratello entra in una fase decisiva della sua tormentata vicenda processuale; chissà se lo difenderà in una battaglia ormai senza quartiere perché – a suo dire - venga trovato «il vero assassino di Yara».
Insomma, chi considerava conclusa questa triste vicenda, con l’omicida assicurato alle patrie galere, ha dovuto ricredersi. Sono passati tre anni dalla sentenza della Cassazione, ma questa storia ancora divide l’opinione pubblica e, soprattutto, determina altre udienze e nuove inchieste, tuttora in corso. Con uno scontro tra Bossetti e chi ha condotto le indagini, con pochi precedenti negli annali giudiziari dei processi per omicidio volontario. Il muratore ha infatti appena denunciato addirittura per depistaggio i magistrati della procura di Bergamo. In particolare, ipotizza addirittura delle alterazioni dei reperti del Dna, che avevano costituito la prova regina contro di lui. Infatti, non si dimenticherà che, grazie al riconoscimento dell’impronta genetica di Ignoto 1 sul corpo della povera Yara, ritrovata priva di vita in un campo a Chignolo il 26 febbraio 2011, si risalì a Bossetti attribuendo a lui quella traccia genetica, mista al sangue della povera tredicenne.
Ma non è finita. A sua volta il procuratore di Bergamo Antonio Chiappani ha denunciato per calunnia i difensori di Bossetti, l’avvocato Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Il fascicolo è ora in mano ai magistrati della procura di Venezia, competente per i procedimenti che coinvolgono le toghe orobiche. Al centro, dunque, torna la questione dei reperti e di come sono stati conservati in tribunale a Bergamo. A gennaio scorso Bossetti aveva avuto un momento di ottimismo: la Cassazione aveva infatti ritenuto fondati i ricorsi dei suoi difensori, rinviando alla corte d’Assise di Bergamo la decisione sulla possibilità di farli accedere a quei 98 oggetti costituenti prova al processo. Ma a giugno è arrivata la doccia fredda, con la corte territoriale che ancora una volta respingeva al mittente la richiesta. A questo punto, per Bossetti, l’unica speranza è rappresentata da una revisione del processo sulla base di nuove prove, ma per i giudici quelle prove non possono certo uscire da una nuova analisi dei famosi reperti. «La necessità di svolgere nuove/ulteriori indagini di tipo genetico – chiosano i magistrati d’Appello - poggia sul falso presupposto dell’esistenza di irrisolte anomalie negli accertamenti eseguiti e posti a base del giudizio di condanna di Bossetti. Le anomalie di cui parla la difesa – utilizzo di kit da tempo scaduti; il gravissimo e non risolto contrasto tra il dato nucleare e quello mitocondriale della medesima cellula; mancata validazione di riscontro nei controlli positivi e negativi; presenza di un allele soprannumerario, liquidato come artefatto; incredibile lievitazione dei quantitativi nei campioni passati in mano; aggiunta di materiale o sostituzione di provette; contaminazione dei campioni - sono state già contestate e vagliate nel corso del processo e tutte hanno trovato razionale spiegazione nelle sentenze di merito sulla base di logiche e coerenti argomentazioni positivamente valutate anche dalla Suprema Corte».
Ma Bossetti non arretra, anzi. Per uno dei suoi consulenti, il genetista Marzio Capra, non si può chiudere così la vicenda: «Noi siamo convinti delle nostre ragioni – afferma a Quartogrado - e dell’importanza di analizzare questi reperti. Non ci aspettavamo appunto questa decisione. Manca solo che fra un po’ appongano il segreto di stato e poi siamo a posto! Sicuramente ci sono delle nuove tracce che non sono state esplorate. In questo caso ci sono tante evidenze che non sono state poi approfondite perché ne sono state trovate altre, ritenute più importanti da verificare. È fondamentale che, chiunque venga accusato di un crimine così grave, debba avere la possibilità di verificare tutti gli elementi di prova e i reperti. In questo caso, non abbiamo avuto la possibilità neanche di vederli». La difesa, quindi, insiste sull’importanza di queste ulteriori analisi, soprattutto sui 54 campioni di Dna prelevati sugli indumenti e sul corpo di Yara, rimasti al centro del giallo. Secondo la difesa, contrariamente a quanto sostenuto nei tre gradi di giudizio – ricostruiscono i magistrati di Bergamo - dal provvedimento di confisca emergeva un fatto del tutto nuovo, consistente nella disponibilità di ulteriore materiale genetico, utilmente analizzabile nel contraddittorio delle parti: i 54 campioni di Dna sarebbero «magicamente ricomparsi in sede di confisca dopo che per tre gradi di giudizio se ne era affermato l’esaurimento». In pratica, sempre secondo la difesa, i campioni di Dna di cui si sarebbe negata l’esistenza per rendere impossibile il confronto con quello di Bossetti, sarebbero poi riapparsi solo per essere confiscati. Se corrispondesse al vero quest’agire, dovrebbe essere perseguito. Peccato che la tesi dei magistrati sia diametralmente opposta. Le provette di Dna sarebbero state sempre a disposizione, nei laboratori di analisi del professor Casari. Ecco perché «si tratta di affermazione destituita di fondamento – si legge nel provvedimento -, in quanto agli atti vi è prova che la difesa ha sempre avuto contezza dell’esistenza e della reale natura del materiale in questione. A dimostrazione del fatto che le provette contenenti i campioni di dna non siano "comparse all’improvviso dal nulla", è sufficiente richiamare la relazione di consulenza scientifica depositata il 13.2.2015 presso la procura in cui il consulente del pm dottor Casari dava atto di aver ricevuto in data 28/02/2013 dal maresciallo Corrado Medda del comando provinciale di Bergamo n. 54 campioni di Dna. Contrariamente alle deduzioni difensive, il reperto non è mai stato occultato, è sempre stato in sequestro fino alla confisca definitiva del 15.01.2020, è entrato a far parte del compendio probatorio e comunque degli elementi processuali a disposizione delle parti, è stato analizzato dal consulente del pubblico ministero e a sua volta contro esaminato dalla difesa e dai consulenti di parte, ed è stato valutato dai giudici. Dunque "nessun fatto nuovo" o "prova nuova" spendibile ai fini dell’eventuale richiesta di revisione del processo».
Chissà quando e se Yara troverà finalmente pace. Il suo assassino l’ha lasciata morire in quel campo, dopo averla colpita con un taglierino: «la causa della morte era dovuta alla combinazione tra lesioni contusive, lesioni da taglio, indebolimento da queste provocato sull’organismo della vittima e l’ipotermia». Yara «…stringeva con la mano destra elementi botanici autoctoni, aveva la caviglia avvolta da sterpaglie identiche a quelle presenti nel campo fin dall’autunno». La maggior parte dei tagli era stata inferta quando la vittima era in stato di semi-coscienza, dopo essere stata tramortita dai colpi alla testa. Nessun taglio, invece, era stato riscontrato sul reggiseno, risultato completamente slacciato e parzialmemnte sollevato verso l’alto. Una scena che ha dato adito a mille interpretazioni, persino maligne. Certo, alcuni misteri sono rimasti irrisolti, a iniziare dal movente di questo omicidio, visto che non vi erano tracce riconducibili a violenza sessuale. Forse Bossetti è stato respinto, forse un’esplosione d’ira ha fatto degenerare tutto tra l’incensurato muratore e la ragazza che amava la danza e sognava ad occhi aperti. Di certo i due non si conoscevano.