La Stampa, 25 luglio 2021
I primi cento giorni di Unicredit targata Orcel
«Da Andrea ci aspettiamo tutti che faccia cose fantastiche...». Sono già trascorsi cento giorni da che Andrea Orcel è arrivato alla guida di Unicredit. Ma l’allure che accompagna il banchiere arrivato dalle grandi case d’affari – Goldman Sachs, Merrill Lynch, Ubs – a dirigere il secondo istituto del Paese non è mutata: per tutti resta il «dealmaker» per eccellenza, quello da cui, come commenta un importante gestore milanese, «ci aspettiamo scintille in tema di aggregazioni bancarie». E invece, sorpresa.
In tre mesi, il 58enne Orcel ha fatto molte cose ma tutte tese a riorganizzare e rilanciare la banca al suo interno. Ha invece lasciato il risiko chiuso dentro la sua scatola in un cassetto. «Al momento, voglio concentrarmi sulla nostra banca, sulle risorse all’interno del nostro gruppo: è lì che risiede il nostro vero valore», ha scritto pochi giorni fa ai dipendenti. E le acquisizioni? «Rappresentano solo un acceleratore».
Così mentre tutti lo attendevano, e lo attendono, su un dossier caldo come quello del Monte dei Paschi di Siena, che lo Stato – padrone col 64%, risultato del salvataggio pubblico della più antica banca del mondo – deve vendere entro aprile del prossimo anno, il banchiere romano di fronte all’affannarsi dei palazzi romani ha mostrato sufficienza. «Andrea non è certo uno sprovveduto – osserva un manager che lo ha incrociato nell’esperienza professionale –. In una trattativa complessa sa bene che la cosa migliore da fare per posizionarsi è dire: io non la voglio. Da lì si tratta...». Una strategia che sta già producendo effetti: non è un caso che in rapida successione il Monte stia risolvendo i nodi che ne rendono difficile la vendita. È recente l’accordo con l’omonima fondazione per cancellare 3,8 miliardi dal fardello dei rischi legali (erano 10, ora sono 6). Orcel, per prenderla in considerazione, si dice voglia una banca ben ripulita, dai crediti dubbi e non solo, senza vincoli contrattuali corredati di penali che Unicredit non ha intenzione di pagare. L’operazione si farà solo se sarà neutrale dal punto di vista del patrimonio. In ogni caso le trattative si annunciano lunghe. Così come su un altro fronte, quello del Banco Bpm. Per ora l’istituto è ritenuto troppo caro, per non parlare del premio ulteriore che andrebbe riconosciuto agli azionisti. Certo, Banco Bpm potrebbe aiutare Unicredit a serrare una rete commerciale nata storicamente a maglie larghe. In più gli aprirebbe le porte, col 19%, di una fabbrica prodotto (si parla di fondi, ovviamente) come Anima. Ma serve che le caselle vadano a posto, a cominciare dal prezzo che no, non è quello giusto.
Orcel mostra di non avere alcuna fretta. Non quanta ne ha nella ristrutturazione interna. Nemmeno un mese dopo la sua nomina ad amministratore delegato, avvenuta il 15 aprile, mette mano all’organizzazione. La filosofia? «Semplificare e ridurre la complessità che ha caratterizzato il nostro business per troppo tempo», spiega al mercato. Il nuovo comitato esecutivo di gruppo passa da 27 membri a 15. Le manager donne salgono dal 15 al 40%. Ci sono inglesi, tedeschi, europei dell’est, un malese. In agosto arriverà, dalla Cina – ma con origini in Mongolia – Jingle Pang: a lei toccherà muovere le leve della digitalizzazione, prossima grande sfida del gruppo.
Orcel fa di tutto per oliare una macchina che fatica a girare a pieno regime. Riduce i comitati interni della capogruppo: da 44 a 15. Anche nei riporti punta a snellire il tutto. Quanto il suo predecessore Jean Pierre Mustier si è mostrato accentratore, con tutte le funzioni di controllo chiuse nella torre di piazza Gae Aulenti, tanto Orcel applica una sorta di federalismo bancario. Resta la visione paneuropea, ma tornano le geografie. L’Italia, dove sono le radici del gruppo che Orcel torna a enfatizzare, diventa una «geografia autonoma e dotata di pieni poteri», accanto a Germania ed Europa centrale e orientale. Tali aree accanto alla gestione commerciale, incorporano le funzioni di controllo, legale e quant’altro serva per eliminare colli di bottiglia e rendere il business più spedito. «È l’inizio di un processo di maggiore responsabilizzazione», dice.
Contrariamente a quanto si possa pensare, un manager tutto d’un pezzo come lui, competitivo, passionale, facile a infiammarsi, ha fatto di tutto per entrare in sintonia col gruppo. Alle videochiamate fiume dalla casa di famiglia affacciata sulla spiaggia del Guincho a Cascais in Portogallo – con tanto di leadership meeting virtuali con i 500 principali manager – alterna settimane milanesi (dove ancora non ha preso casa) al 28esimo piano della torre di Porta Nuova. Lo incrociano in giro per gli sportelli di Milano. È andato a Torino, Modena, Verona. Parla con commerciali, gestori, raccoglie suggerimenti, indicazioni. Come Mustier ama indossare le cravatte rosse, per lo più Ferragamo, ma rispetto al manager francese, grande scaramantico che aveva imposto lo stesso colore a tutti, ha ristabilito libertà di nuance.
Nato a Roma, laurea in economia alla Sapienza, master all’Insead, Orcel – amante del mare, della bicicletta e uso alle levatacce mattutine – ha sempre lavorato fuori dall’Italia, per lo più a Londra. «Anche per questo non assomiglia a nessun banchiere italiano – confida chi ha avuto più occasioni di incontro con lui negli ultimi mesi –. È il miglior consulente di se stesso e ha una caratteristica rara nell’ambiente: sa ascoltare. Non è arrogante, sa valorizzare le persone e dar loro una chance». Si dice che abbia scarsi rapporti con la politica (per quello del resto, c’è il presidente, l’ex ministro Pier Carlo Padoan) e forse conosca poco un certo sottobosco della nostra finanza, nonostante i tanti affari fatti in Italia. «Ma ha le idee chiare e sa cosa fare».
Dal suo arrivo il titolo in Borsa ha guadagnato il 15%: un’apertura di credito in attesa della svolta. Il mercato ha presto dimenticato la polemica – condivisa anche da alcuni fondi americani – sul suo maxi stipendio da 7,5 milioni l’anno (di cui 5 variabili ma per quest’anno slegati da qualunque parametro) e segue distrattamente la sua vertenza col Santander che lo voleva salvo pentirsi, perché troppo caro. Il mercato guarda ad altro. Attende il piano strategico in autunno con una spinta ai ricavi. E, alla fine, che il «dealmaker» porti in tavola la sua specialità: un’acquisizione che possa rilanciare un’Unicredit un po’ appannata.