il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2021
Biografia di Giorgio Pasotti raccontata da lui stesso
Il buongiorno ha un sottofondo ecumenico con modalità laiche: “Mi può chiedere tutto, non ho segreti”. Magari è allenato alla bugia. “In passato ho provato a darmi un tono, ma poi cado nella mia ingenuità degna di un bergamasco”. È posato. “Forse con venticinque anni di Roma e d’attore ho maturato degli anticorpi”.
Giorgio Pasotti è uno dei belli e bravi del cinema italiano, uno per anni inseguito da gossip e sogni: il suo sorriso, i suoi capelli biondi, la sua seduzione leggera, i suoi ruoli non bellicosi lo hanno portato a lavorare con i grandi maestri (Monicelli, Sorrentino, Luchetti e Muccino) e per produzioni così fortunate da toccare picchi in stile Nazionale di calcio (“La puntata di Distretto di polizia, quando sono morto, ha segnato 14 milioni di spettatori”). Ora è anche regista con Abbi fede e a Taormina è stato premiato in occasione del Nations Award.
Insomma, niente segreti.
(Sorride) In teoria ho imparato dai grandi che meno dici, meno ti fai capire, e meglio è; poi ammetto di non riuscire ad applicare sempre questa regola, sono ancora affetto da slanci emotivi, e ogni tanto perdo i freni inibitori.
Chi sono quei “grandi”?
Penso ai registi con i quali ho lavorato: tutti parlano poco e quei pochi concetti sono quasi enigmatici; (ride) c’era Monicelli che stava sempre in silenzio, ma quando apriva bocca sembravano delle piccole scosse di terremoto, anche perché l’ho conosciuto in un’età che gli consentiva di non mantenere filtri rispetto ai suoi pensieri.
Già da giovane non era molto contenuto…
E nonostante i novanta e passa anni trasmetteva intelligenza rara e grande lucidità: gli stavo accanto e godevo di ogni attimo, poi il massimo l’ho vissuto durante un pranzo con lui e Dino Risi.
Dei due chi era il più cinico e spietato?
Una gara impossibile: criticavano chiunque con un’ironia straordinaria, e alla base una cattiveria mai banale.
Monicelli la insultava sul set?
No, aveva un occhio di riguardo per me e per Michele Placido, mentre uccideva tutti gli altri, in particolare Alessandro Haber; con Alessandro si palesava un rapporto particolare, un po’ gli piaceva ricevere certi maltrattamenti, e all’inizio eravamo tutti imbarazzati, poi abbiamo capito la liturgia e ridevamo come pazzi.
Le critiche come le vive?
Prima le accusavo, oggi so conviverci e avere fiducia nel mio giudizio, soprattutto da quando sono regista.
Da regista è più come Muccino che abbraccia o Monicelli che manda a quel paese?
Nessuno dei due; conosco i lati deboli e quelli forti di chi lavora con me, so ogni dettaglio delle personalità, e ho maturato un metodo che può sconfinare verso una sorta di psicoanalisi o di trasposizione emotiva dei ruoli: a seconda dei momenti divento padre, zio, cugino, semplice confidente.
È mai stato una pecorella smarrita?
Lo potevo diventare. Sono cresciuto in una Bergamo molto diversa da quella di oggi: alla fine degli anni Settanta, specialmente la parte storica, era un quartieraccio dove girava eroina e numerosi ragazzi sono finiti male. Per fortuna lo sport mi ha dato la giusta via: senza le arti marziali non so cosa sarei diventato.
È andato in Cina per seguire la passione sportiva, altro che attore…
Sono l’esempio lampante delle parole di John Lennon: “La vita è quello che ti succede mentre stai realizzando i tuoi progetti”; tutto ciò che un tempo pensavo di fare, poi non si è realizzato.
Rivede i suoi primi film?
Muccino sostiene che parlavo come Arlecchino, e ha ragione: avevo una terribile calata bergamasca e se mi guardo non capisco come qualcuno possa aver creduto in me.
L’aspetto fisico l’ha aiutata?
Forse sì, eppure non mi sono mai visto come un sex symbol o un figo.
Qui scattano i dubbi di chi ascolta.
Sono un artigiano dello spettacolo, non un attore di talento; anzi il concetto di “talento” è ampiamente abusato, soprattutto nel nostro cinema…
Anche Monicelli si definiva artigiano.
È vero, però lui era un genio; comunque ho sempre pensato e lavorato da artigiano, come chi sta a bottega e ogni giorno osserva gli altri, cercando di imparare.
Un suo pregio.
Ho un buon fiuto quando leggo il copione, riesco capire se sto per girare un film valido o no, e mi è successo con L’ultimo bacio, con La grande bellezza e con Distretto di polizia; (ci pensa) dopo il film di Muccino noi protagonisti ci siamo trovati sommersi da proposte per pellicole simili, sempre crisi famigliari intorno a un gruppo di amici; io invece ho scelto di cambiare e buttarmi sulle serie tv.
Allora considerate di serie B.
Infatti molti colleghi mi sconsigliarono, forse pure lo stesso Gabriele.
Oggi tutti lanciati nella serialità.
E ce ne fossero di lavori come Distretto; quando il mio personaggio è morto, e per scelta mia, la puntata venne vista da 14 milioni di spettatori.
I fan in lacrime.
Lì ho capito il potere della televisione: al supermercato incontravo persone che mi toccavano per controllare se stavo bene, altri si sono piazzati fuori da Cinecittà per uno sciopero della fame: pretendevano il ritorno del mio personaggio.
Per Muccino quel gruppo di attori ha rischiato di perdersi per il troppo clamore.
Il pericolo c’è, sopratutto se quel tipo di successo arriva quando sei giovane, e noi avevano meno di trent’anni; e poi il mondo dello spettacolo, se sei alle stelle, non vede l’ora di assestarti un calcio nel culo e rimandarti da dove vieni.
Nessuna solidarietà.
Macché! E invece quel gruppo de L’Ultimo bacio ha mantenuto la prerogativa della professionalità, non ci siamo mai fermati sui traguardi conquistati. E siamo sempre amici.
Allora chi era il più bravo?
(Silenzio prolungato) Durante le riprese di Ecco fatto guardavo Claudio Santamaria, amavo il suo esserci e non esserci, poi ho scoperto Accorsi e Favino; (ci pensa) sono le scelte a determinare un attore, al di là delle capacità interpretative, e un giorno me lo ha spiegato Abatantuono: “La nostra fortuna è basata al 70 per cento dai film, il 30 dal talento”.
Un copione che ha sbagliato a non prendere.
Ero a un passo dal girare Radiofreccia, poi all’ultimo provino ci andai controvoglia perché avevo accettato e già firmato un contratto con Cecchi Gori.
Si è mai sentito onnipotente?
Mai, e torno a ringraziare lo sport: la mia disciplina era ed è povera, dovevamo pagarci le trasferte, quando vincevi ti davano una medaglia e un panino con la mortadella; quando sono arrivato nel cinema ho sempre pensato a quella realtà.
È fragile?
Meno di altri; (ride) ora sembro fissato, ma con le arti marziali mi sono piegato, caduto a terra e sempre rialzato. È una scuola di vita.
I ragazzi del suo quartiere la provocavano per verificare le sue capacità?
Non molto: Bergamo è piccola, ci conosciamo, e già sapevano che non era il caso.
Un collega dal quale ha imparato…
(Silenzio) Tony Servillo o Giorgio Tirabassi; Giorgio è stato utilizzato poco dal cinema, ma è strepitoso, sia come si prepara alla parte sia per la leggerezza che porta con sé.
Per recitare quanto conta piacere anche fuori dal set?
Non è proprio così: spesso le persone più modeste e disponibili passano per essere un po’ coglione, come se non fossero virtuose; mentre attori e attrici con atteggiamenti da divi, magari non sono in grado di fare due più due. Tutto questo alla lunga non paga, e come dice Castellitto: “La carriera di un attore va valutata nell’arco di venti o trent’anni, non due o tre”.
La sintesi.
Che i più grandi hanno atteggiamenti modesti, magari sono affetti da psicopatie, ma senza prosopopea.
La psicopatia più ricorrente?
C’è un attore che non ti tocca mai, non gli puoi dare la mano, altrimenti corre al bagno per pulirsi; altri sono schiavi di tic imbarazzanti o versi strani con la bocca, talmente strani che uno si sente preso in giro.
Le scene di nudo la imbarazzano?
No; (silenzio) parla di nudo integrale?
Sì.
Quelle eccome! Una volta mi è capitato a teatro, il regista era Robert Lepage, un mezzo genio, me ne parlavano meglio di Peter Brook, e ha preteso che scendessi da un muro senza nulla addosso; (sorride) esordii al teatro Giovanni da Udine, era enorme, e quando dalle quinte mi accorsi che era pieno, diventai rosso e pensai: “Ora tutti vedranno il mio pisello”. Ancora oggi non ci posso pensare.
Per una serata…
Una? Tutta la tournée. Quando finiva lo spettacolo e le persone arrivavano nei camerini, cercavo di uscire per ultimo: mi vergognavo.
E le scene di sesso sul set?
Agli inizi le trovavo imbarazzanti ora no, e forse mi impegno poco; Monicelli credeva di non essere in grado di raccontarle e c’è un fondo di verità: o uno le affronta in maniera autoriale, altrimenti sono tutte uguali.
La scena di sesso l’avrebbe girata più con la Fenech o la Bouchet?
Non mi può porre una questione così complicata: ci sono cresciuto, per anni sono state le mie amanti o fidanzate.
E per anni è stato protagonista del gossip.
Mi ha rotto tanto e soprattutto hanno scocciato le persone che avevo accanto: quando ero al centro dell’attenzione arrivavano a studiare le targhe delle auto dei miei amici, oppure conoscevano le scuole dove andavano i loro figli e solo per cercare delle mie tracce.
Molti suoi colleghi ci hanno costruito delle fortune.
Alla fine sono carriere che non valgono nulla, preferisco gli attori riservati; (cambia tono) se gli attori li conosci personalmente, ti deludono quasi sempre.
Vita reale o set?
Vita reale, sempre.
Spinelli?
A 16 anni, a Bergamo, era quasi inevitabile.
Chi è lei?
Una persona che ha vissuto bene la sua vita, e se la sta godendo appieno.