Famiglia romanissima e complicata?
«I miei genitori si sono separati con la stessa ansia con la quale si erano sposati, erano molto giovani e io non ero previsto. I primi ricordi di famiglia sono quelli del secondo matrimonio di mia madre. Da figlio unico di mamma separata e lavoratrice, mi ritrovai con due sorelle acquisite e un secondo padre.
Sono stato molto fortunato, ho avuto l’affetto di tre genitori fantastici. A seguire si sono aggiunti anche due fratelli, uno da parte di mio padre e uno di mia madre. Una famiglia allargata e serena già negli anni Sessanta».
Quando ha cominciato a suonare?
«Mio padre mi regalò una chitarra classica e mi feci insegnare gli accordi delle canzoni dagli amici più grandi di mia sorella Susanna. Poi a Londra comprai una chitarra acustica con le mance che mi procuravo lavorando come cameriere e iniziai a fare sul serio».
Quali scuole ha frequentato?
«Ero molto irrequieto, ho avuto periodi d’intenso impegno politico, prevalentemente nella Fgci, ma anche derive di fancazzismo goliardico. Non dimenticherò mai la morte di Giorgiana Masi a pochi metri da me. Era una manifestazione pacifica organizzata dai radicali ma era anche il ’77 e poteva accaderti di tutto, nel bene e nel male. Ho fatto il liceo scientifico a Monterotondo e poi al Morgagni di Roma. Il primo amore fu una ragazzina che abitava davanti a me a Monteverde. Anni dopo venni a sapere che stava con un terrorista di destra, provai ad aprirle gli occhi senza successo. Lui morì in una sparatoria e lei capì troppo tardi. Un giorno, tornando da scuola sulla mia Vespa, qualcuno mi gridò che avevano rapito Moro, sembrava uno scherzo. Le aperture a sinistra l’Italia le ha sempre pagate con sangue innocente, è una storia che va avanti dal primo maggio 1947, da Portella della Ginestra».
Suonava per i turisti tra le bancarelle di piazza Navona.
«Avevo messo su un bel repertorio insieme con il mio amico Mario.
Eravamo i Simon & Garfunkel de noantri. Avevamo voglia di esibirci e la strada era un po’ la nostra seconda casa. Partimmo da Piazza Navona e girammo tutta l’Europa».
Chi deve ringraziare per il salto professionale?
«Il primo a darmi un’opportunità fu Gianni Ravera con Castrocaro e poi Sanremo. Non avevo ancora vent’anni e già mi conoscevano per Roma spogliata .Partii in tournée con Cocciante che mi faceva aprire i suoi concerti e fu come seguire un corso accelerato su come si stava sul palco».
Torniamo indietro. Quando ha conosciuto la radio?
«La domenica da mia nonna Aurelia, col profumo della sfoglia appena fatta e del sugo per le fettuccine, ci si metteva davanti all’apparecchio radiofonico, lei così la chiamava, per sentire e immaginare Gran Varietà .
Poi cominciavano le trasmissioni regionali: Campo de’ Fiori con l’indimenticabile Orazio Pennacchioni di Isa Di Marzio».
Che differenza sentimentale c’è con la televisione?
«Nella tv c’è un rapporto molto stretto tra immagine e finzione, l’immagine va costruita. La radio è vera, è più diretta. Gli ospiti di Radio 2 Social Clubtirano sempre fuori la parte più sincera e divertente del loro carattere».
Crede di avere calato l’ancora nelle acque che cercava?
«Da adolescente i miei sogni erano molto meno strategici. Non avrei mai pensato che un giorno avrei avuto un programma tutto mio, fatto di musica dal vivo, comicità, cinema, letteratura, teatro, tv. Ero solo un menestrello che aveva delle storie da raccontare e che seguiva la strada che avevano già tracciato illustri predecessori come Woody Guthrie e Bob Dylan».
Chi ha tracciato la sua, di strada?
«Il già citato Gran Varietà e Tutto il calcio minuto per minuto . Arbore e Boncompagni maestri assoluti. Una volta chiesi a Renzo Arbore quale fosse la formula segreta del successo dei suoi programmi: musica e puttanate, mi rispose. Ne ho fatto tesoro. Un’altra risposta storica me la regalò Ettore Scola, grande regista ma anche autore di programmi radiofonici con Alberto Sordi. Gli chiesi cosa avesse ispirato così fortemente tutto il gruppo di autori, umoristi e cineasti del Marco Aurelio , giornale satirico fondato nel 1931. La sentenza fu secca e inconfutabile: la fame!».
La tv è stata l’uomo sulla Luna, la radio la fine della Seconda guerra mondiale. Che cosa vuole aggiungere?
«I grandi concerti con orchestra, Trovajoli che dirige Sinatra, le big band americane, Glenn Miller, Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, i programmi notturni svincolati dalla playlist pop del momento. La radio conserva qualcosa di clandestino, di completamente libero, è il segreto della sua longevità. È fluida, scorre come l’acqua».
Radio2 Social Club, di qui all’eternità?
«Ci prepariamo alla tredicesima stagione, cambiamenti ce ne sono stati e ce ne saranno ma lo spirito rimane lo stesso. Si è aggiunta anche Rai2 con la messa in onda in tv ma è come se ci spiassero dal buco della serratura, non abbiamo cameraman in studio, solo sistemi automatici di ripresa. L’intimità è salva».
Chi è stato a consegnare il primo pezzo di radio a un cantautore?
«Stefano Micocci mi invitò a condurre per un periodo breve
Mezzogiorno con… , poi il direttore Antonio Caprarica mi chiamò a Radio1 per curare una rubrica musicale all’interno del programma Tornando a casaguidato da Enrica Bonaccorti. Infine con Valentina
Amurri presentammo il format di
Radio2 Social Club . La direttrice di Rai Radio2, Paola Marchesini, ha puntato molto su di noi, traghettando il programma dal weekend al quotidiano».
Quanto si prepara alla vigilia di ogni trasmissione?
«Parecchio, leggo e ascolto molto.
Bisogna sapere tutto per avere poi la libertà di improvvisare. Se presento un libro voglio leggerlo, se ospito uno scienziato devo capire di cosa si occupa, con i musicisti è più facile».
Chi invidia e chi ammira?
«Il primo per talento è il mio compagno di squadra Andrea Perroni. Ha la capacità innata di cambiare voce con una velocità impressionante. Sono un fan di Marco Presta e di Fiorello: inarrivabili».
La radio è una femminista ante litteram?
«Verissimo. In radio non ci sono vallette. La tv è stata spesso mortificante da questo punto di vista, con figure femminili utilizzate come ornamento. Le donne in radio hanno sempre avuto un ruolo importante e paritario. La radio è parola, se hai qualcosa da dire la gente ti dà retta, indipendentemente dall’aspetto fisico».
Che musica ascolta quando non si tratta di lavoro?
«Solo jazz. Bill Evans, Chet Baker, qualche incursione nel blues, J.J.
Cale su tutti. È una malattia che mi ha trasmesso mio padre».
Lei ha tenuto a lungo la pandemia al centro del suo programma.
Perché?
«Perché ha evidenziato le ingiustizie e le contraddizioni della nostra società. Lavori precari e intermittenti, totale assenza di garanzie per molte categorie, ladrocini nella sanità pubblica, tagli incondizionati, carceri in condizioni disumane, scuola rimasta indietro, connessioni alla rete problematiche e care. Ci voleva un virus per svegliare la politica?».
Che cosa ha cercato di trasmettere ai suoi figli?
«L’importanza delle passioni. Chi ha una passione come la lettura, la musica, l’arte, lo sport, la bellezza, si salverà sempre. Comunque abbiamo anche molto da imparare dai nostri figli, mi hanno stancato i luoghi comuni sulle nuove generazioni.
Sono ammirato dalla nostra giovane nazionale di calcio, da Matteo Berrettini, dai Maneskin. Giovani di grande talento che smentiscono tutti i luoghi comuni sugli italiani pigri, scansafatiche e furbetti».
La sua più grande paura?
«L’ambiente. Il futuro del nostro pianeta, non abbiamo ancora capito.
Ha ragione Greta Thunberg».
C’è sempre qualcosa di assente che mi perseguita, scriveva Camille Claudel. Le capita di avvertirlo?
«Lo racconto nel mio libro Non perderti niente . C’è un nodo nell’anima che mi accompagna dall’infanzia. Un misto di inquietudine e inadeguatezza.
Un’insoddisfazione di fondo che però mi ha portato a cercare, scrivere, creare, cantare. A volte mi sembra di sentire tutti i dolori e le ferite del mondo e di esserne in parte responsabile. Mi ci sono affezionato, fa parte di me. Se fossi solo felice e fortunato, non me lo perdonerei».
Come sarà domani la sua radio?
«Vorrei fare un programma che mette in scena solo le prove. Tutti i preparativi, l’arrivo dell’artista, le parolacce, le cose che non diresti mai in diretta, gli errori. E poi quando è il momento di andare in onda dire: ok finito, grazie».