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 2021  luglio 25 Domenica calendario

Scuola, l’ideologia è il nodo da tagliare

Una delle principali cause della decadenza italiana è stata la catastrofe educativa che ha colpito il Paese da almeno una trentina d’anni. Una catastrofe che ha disarticolato l’istituzione scolastica, producendo generazioni sempre meno preparate. Figuriamoci dunque se non sono d’accordo con quanto ha scritto Angelo Panebianco (Corriere del 20 luglio) invocando un sussulto di consapevolezza da parte della classe dirigente e un intervento del governo.Che dovrebbero essere entrambi mirati – egli scrive – a sottolineare l’importanza dell’istruzione ma soprattutto a mandare un segnale agli insegnanti. Un forte segnale di apprezzamento circa l’importanza pubblica della loro funzione insieme a un miglioramento della condizione economica del corpo docente e alla decisione, al tempo stesso, anche di rompere l’attuale uniformità retributiva che mortifica i migliori e ne spegne ogni energia.
Ripeto: magari accadesse qualcuna di queste cose. Ma visto che a farle accadere, come scrive anche Panebianco, dovrebbe pensarci una classe dirigente, mi chiedo: ma se una tale classe dirigente davvero esistesse come mai essa ha lasciato che si producesse la catastrofe di cui sopra? La verità – che tutti rimuoviamo – è che da decenni l’Italia è un Paese privo di una classe dirigente ed è perciò che l ’istruzione si trova nelle condizioni in cui si trova. Il ceto politico – ormai sempre più giovane – è in buona parte il frutto esso per primo del crollo educativo di cui stiamo parlando. Non a caso da almeno dieci anni in Parlamento nessuno ha fatto una proposta circa che cosa debba essere la scuola, i suoi contenuti, le sue modalità; nessuno è mai intervenuto a discuterne davvero i risultati. L’amministrazione pubblica, dal canto suo, impoverita di competenze e di competenti, nel campo dell’istruzione è stata solo la fautrice di ogni conformismo didattico e di tutte le iniziative scervellate dei vari ministri (ad esempio quella di cambiare ogni anno le modalità degli esami di licenza). Il ceto industriale, infine, tranne singoli casi che non contano, in questo come in mille altri campi non è mai stato capace di guardare al di là del proprio immediato interesse. Ai suoi occhi la scuola migliore è sempre stata quella capace di sfornare gli operai e i tecnici di cui aveva bisogno. Il resto non gli è mai interessato. 
Questa è nella realtà il modo in cui la classe dirigente italiana ha gestito l’istruzione del Paese. Certo, Mario Draghi è un’altra cosa, ma possiamo andare avanti facendo affidamento per qualsiasi questione sullo «zar buono»? Tanto più che nel campo della scuola quello che serve non è questo o quel provvedimento – neppure quelli ottimi indicati da Panebianco – ma una cosa completamente diversa e ben più complicata. Quel che serve è una svolta culturale che colpisca alla radice l’ideologia che è stata la prima responsabile della crisi in cui la scuola è sprofondata. 
Tutto ebbe inizio negli anni 60 dal proposito sacrosanto di cancellare le chiusure e i privilegi classisti di cui era imbevuto l’ordinamento scolastico tradizionale. Ma rapidamente tale proposito – per effetto dell’estremismo dei tempi e delle parti politiche che gli davano voce – si è tradotto (e corrotto) in due idee rivelatisi micidiali. La prima è stata l’idea che il classismo della scuola consistesse essenzialmente nei suoi contenuti e nei relativi modi di insegnamento e di apprendimento. Cioè nella cosiddetta cultura «borghese» e nel «nozionismo», e dunque che, modificati o aboliti l’una o l’altra, cancellati il latino, il riassunto e le poesie «a memoria», sarebbe stata possibile un’istruzione nuova finalmente per tutti. 
Obiettivi 
Tutto ebbe inizio negli anni 60 dal fine di cancellare 
i privilegi classisti di cui era imbevuto l’ordinamento 
La seconda idea sconsiderata è consistita nel credere che l’espressione di un tale rinnovato modello d’istruzione non classista dovesse essere non già una scuola in grado di annullare gli svantaggi di partenza di molti suoi allievi com’era giusto e sacrosanto. Bensì una scuola programmaticamente «inclusiva», cioè subordinata all’obiettivo prioritario di garantire in linea di principio il «successo formativo» di tutti i suoi allievi. Una formula suggestiva che tradotta in pratica ha finito per significare però una cosa sola: l’ovvia, benché naturalmente mai esplicita, delegittimazione di qualsiasi selezione e dei suoi strumenti. 
Peccato che una volta fissati questi principi, nessuno seppe poi dire quale altra cultura diversa da quella «borghese» dovesse insegnarsi e attraverso quale altro modo se non articolandola comunque in «nozioni». Così come nessuno trovò mai il coraggio di dire che al pari di qualsiasi impresa umana anche la riuscita di un impegno educativo e del relativo apprendimento può essere misurata dal più al meno: e caso mai trovata insufficiente. In mancanza di che il senso stesso di quell’impegno svanisce e con esso pure il significato ultimo della scuola. 
Idee sbagliate e mancate risposte hanno aperto un drammatico vuoto d’identità nel sistema scolastico: puntualmente assecondato peraltro dalla miope volontà delle famiglie, nella maggioranza dei casi desiderose solo di avere qualcuno cui affidare per qualche ora al giorno i propri figli e di vederli promossi alla fine dell’anno. 
Si è avviata così una trasformazione decisiva: la funzione socialmente democratica della scuola – che consiste per l’appunto nell’istruzione obbligatoria e di qualità e nell’individuazione dei «capaci e meritevoli» attraverso l’insegnamento dei contenuti delle diverse discipline – questa funzione socialmente democratica della scuola è stata progressivamente soppiantata da una funzione ideologicamente democratica. Da molti anni pertanto la scuola sembra esistere esclusivamente per essere non solo l’ambito delle più svariate iniziative ispirate al politicamente corretto (insegnamento della Costituzione, «nave della legalità» e quant’altro fino alla recente proposta dell’onorevole Zan di far celebrare annualmente in ogni istituto una sorta di «gay pride» in formato scolastico) ma il terreno di applicazione di una serie continua di prescrizioni innovative – didattiche, pedagogiche, psicologiche, tecnologiche – che proprio per questo loro carattere, per il loro modernismo esibito, per il loro essere contro il «vecchio», contro «ciò che si è fatto finora», sono presentate come un frutto felice del progresso dei tempi, positive, «buone», magari prescritte dall’«Europa» e dunque per ciò stesso inevitabilmente «democratiche». Sia chiaro: non si tratta di opporre al nuovo un assurdo passatismo. Ma di capire che queste novità – in parte anche positive se inserite in un’istituzione scolastica solidamente orientata alla propria antica vocazione educativa – hanno invece avuto e continuano ad avere un effetto solo distruttivo, definitivamente distruttivo, su una scuola da decenni bersaglio di un’ ideologia che ha mirato a delegittimarla proprio in tale vocazione. È dunque tale ideologia, ostile agli insegnamenti disciplinari, all’accertamento del merito, alla selezione, che prima di ogni altra cosa il Paese deve spazzare via se vuole avere una scuola finalmente capace di accompagnarlo sulla strada della sua rinascita.