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Biografia di Paolo Pejrone raccontata da lui stesso
C’è qualcosa di preoccupante nel mondo verde di Paolo Pejrone che al titolo di architetto preferisce quello di giardiniere. Il suo nuovo libro allude alla fine dell’età dei giganti, a quei grandi alberi che hanno popolato le nostre città: bellissimi tigli, vigorosi platani e lecci che ha descritto come dispensatori di ombra nelle estati arse dalla calura cittadina: «Tutto questo», dice Pejrone, «è destinato a sparire perché i venti e le piogge, carichi di una violenza sconosciuta in passato, stanno rendendo pericolose agli stessi uomini le maestose file di alberi che punteggiano le grandi strade e i viali».
Qualche anno fa si verificò in quasi tutta Europa una strage di olmi, trasformando uno degli alberi più popolari in una rarità. E che dire degli strazi cui sono stati sottoposti gli ippocastani, il frassino e l’abete del nord o le truci malattie che hanno fatto deperire migliaia di castani: «Pare che oltre il 40 per cento delle specie arboree endemiche d’Europa sia sull’orlo dell’estinzione». Guardiamo, con apprensione, alla deforestazione amazzonica, all’ecocidio remoto, ma non proviamo lo stesso timore per ciò che sta accadendo nel vecchio Continente. Aceri e betulle minacciati da un coleottero voracissimo. Ulivi decimati che oltre a mettere in pericolo l’economia agricola, intristiscono il paesaggio. Non più solo alternanze di gelate e siccità. Nuove specie irrompono e si adattano: ospiti inattesi e pazienti, inesorabili e voraci partecipano alla tropicalizzazione dei giardini europei.
Non sono un po’ i giardini come le nostre attuali vite?
«Se intende dire che entrambi sono in pericolo, beh posso convenire. Ci trasformeremo, senza estinguerci, in qualcosa di eccessivo. Dopotutto viviamo sotto il segno dell’eccesso. Ma vorrei limitarmi a parlare di quello che conosco meglio: i giardini. Ecco, penso che per prima cosa dovremmo smettere di fare stupidaggini. Un giardino è come un essere vivente: nasce, cresce, si moltiplica e a volte muore. Può morire per nostra insipienza. Non è una panca di pietra, ma un essere che si trasforma progressivamente. Comprende l’erba e i fiori, i cespugli e gli alberi, la vespa e la lucertola, il vicino di casa e il passante, il vero e il fasullo. È un mondo che va osservato e da cui possiamo imparare molto.
Il giardino è una bandiera che va onorata e difesa.
Ma senza nazionalismi».
Cosa intende dire?
«Fare giardini dovrebbe essere diverso dal farne l’ideologia. Per quanto abbia adorato Claudio Abbado non aveva senso dire che sarebbe tornato alla Scala se a Milano si fossero piantati 90 mila alberi. Il rischio è che dietro le buone intenzioni si nasconda un uso demagogico del verde».
Tutto il suo nuovo libro "I dubbi del giardiniere" (edito da Einaudi) – è un richiamo alla concretezza e al buon senso.
«La concretezza significa competenza e conoscenza di cosa si può fare e cosa no. Gli alberi non si possono piantare a casaccio. Sul Lungo Tevere a Roma, è solo un esempio, avrebbero dovuto essere intervallati con uno spazio doppio per consentire una migliore gestione e una maggior difesa contro quelle cheormai sono ripetute tempeste di vento. E poi cosa piantare? Si realizzano giardini raffinatissimi che nessuno è in grado di tenere. E quando c’è un problema si agisce di motosega, cioè eliminando il problema alla radice. Quasi mai ci interroghiamo sulla dignità delle piante. La pianta cresce, vive, sa di esserti utile e noi la trattiamo malissimo.
C’è chi, come Alessandra Viola, ha scritto in difesa dei "diritti delle piante".
«È un tema che esploderà perché i diritti creano sì vincoli ma ci rendono al tempo stesso più liberi e sicuri. Certo, una pianta non parla, non sceglie, non vota, non dà fastidio. È solo un essere vivente che entra in una relazione particolare con noi. Ha un suo linguaggio, un suo modo di comunicare, soffrire e protestare. Come salvaguardare questa relazione?
Ecco il punto. Il diritto di un cane non è un diritto?
Difendiamo le piante come se anch’esse fossero dotate di una costituzione. Però non voglio fare politica attraverso le piante».
E cosa vuole fare?
«La cosa che reputo più importante è stata quella di agire sul verde nel quotidiano. Potrei dire che fin da piccolo ho diviso il mondo tra coloro che parlano e gli altri che fanno».
Le sue origini immagino sono piemontesi.
«Sono di Torino ma le origini saluzzesi. Gente speciale. La mia era un’agiata famiglia di proprietari terrieri e di medici. Borghesia sabauda. Sono l’ultimo di cinque figli. Remavo contro. Non mi piacevano le imposizioni, la disciplina, il dovere in senso astratto.
Quando sentivo che la misura era colma scappavo da Torino e mi rifugiavo da Giovanni e Maria una coppia di giardinieri che in pratica mi hanno adottato. Da loro ho imparato i fondamentali: distinguere le piante, riconoscere le sementi e i fiori, amare le stagioni per quello che donavano alla terra.
A scuola i compagni mi vedevano come un matto, ero il ragazzo che sussurrava ai ravanelli. Fui mandato dai gesuiti per essere istruito. E quando i miei mi chiesero che cosa avrei voluto fare da grande io risposi: incontrare qualcuno che mi cambi la vita».
L’ha incontrato?
«Il primo che indirizzò i miei interessi fu il paesaggista Pietro Porcinai. Era semplice e diretto: se hai questa passione occupatene, disse, ma prima laureati. Ero iscritto ad Architettura e mi laureai con Mollino, un uomo simpaticissimo che mi suggerì una tesi veloce. Disse che prima mi fossi liberato dell’università prima avrei potuto dedicarmi alle mie piante».
Sarebbe stata un’occasione unica lavorare con Carlo Mollino.
«Aveva un immenso talento in tutto quello che faceva. Un genio del design. I suoi mobili sono stupendi, peccato che io abbia solo uno sgabello disegnato da lui. Era stato amico di mio nonno e ho il ricordo di un uomo gentile, veloce nelle decisioni e generoso con gli altri. Sì, avrei potuto affiancarlo e imparare. Ma il mio destino non era nel mattone, che odiavo, ma nel verde. Tanto è vero che dopo la laurea tornai da Porcinai».
E come andò?
«Era il 7 gennaio del 1970, mi ero laureato il 23 dicembre. Giunsi a Genova dove viveva, pieno di speranza. Avevo capito che c’era un lavoro da iniziare. In realtà fraintesi. Arrivai allo studio e mi accorsi immediatamente che il lavoro era poco e lo studio affollato di pretendenti. Me ne tornai a Torino. Un’amica colse tutta la mia delusione e mi disse: "Sai che in questi giorni a Torino c’è Russell Page? Sta rintanato in un albergo aspettando che smetta di nevicare. Perché non lo vai a trovare? Sfrontatamente andai».
Page era considerato allora il più grande architetto di giardini.
«Era la massima autorità mondiale. Marella Agnelli lo aveva invitato per chiedergli credo dei consigli. E gli fece disegnare i giardini del parco».
Page aveva avuto una vita curiosa. A un certo punto si era legato a un maestro dell’esoterismo, Gurdjieff. Le ha mai raccontato di questa relazione?
«No, seppi in seguito che aveva sposato la figlia, Lida Gurdjieff. In quel primo incontro parlammo di giardini e mi chiese che cosa avrei voluto fare negli anni a venire. Alla fine mi propose di raggiungerlo a Londra. Era il classico treno che passa una volta nella vita».
E lei lo prese.
«Un paio di mesi dopo lo raggiunsi a Londra, facendomi accompagnare da Ippolito Pizzetti.
Ippolito era un uomo buono e ingenuo. Al confronto mi sentivo una lince. Ma quel poco di Italia giardiniera che c’è, l’ha fatta lui con la sua passione e con la rubrica che aveva su L’Espresso ».
Era il figlio di Ildebrando, il compositore.
«Con il padre non c’era nessuna intesa».
Da che cosa si capisce un giardino di Page?
«Non ha fronzoli, non è il solito estenuante bla bla estetico. La sua concezione è racchiusa nell’unico libro che ha scritto L’educazione di un giardiniere, lì c’è tutto il suo estro e la sua semplicità. Libro imprescindibile».
È stato il solo maestro?
«Il più importante, ma un rapporto riuscito fu anche quello con Burle Marx, un pronipote di Karl. Page disapprovava il mio entusiasmo per Burle, diceva che i suoi progetti erano adatti al clima tropicale.
Faceva cose violentissime, molto in sintonia con il turbinio vegetale del Brasile. Lo conobbi a Rio, tramite l’ambasciatore italiano e mi piacque subito.
Era un sognatore. Il fratello Sigmund gestiva i soldi e la sorella Gisela comandava lo studio».
E lui?
«Lui immaginava un Brasile non più architettonicamente dipendente dall’Europa, almeno per la parte dei giardini. Legò il senso del rinnovamento rivalutando gli aspetti autoctoni. Le radici sono importanti».
Mi spiega perché è così orgoglioso delle sue?
«Perché dovrei vergognarmene? Le mie radici piemontesi mi provocano un senso di gioia. Siamo una popolazione di soldati, imprenditori noiosi e contadini lungimiranti. Rivendico questo modo di essere, anche se nella vita ho fatto altro».
Ha praticato una professione molto snob e aristocratica.
«Lei trova? Non è così. La verità è che il giardino è elitario, anche se non dovrebbe esserlo. Perché un bel giardino è gioia per il prossimo».
Come un bel libro?
«Sì, ma leggo poco. E quel poco lo dedico ai testi di botanica e di storia. La storia mi piace, da sempre è una grande compagna. Mentre mi infastidisce come una vespa la filosofia. Forse perché non me l’hanno fatta amare. Però ho leggiucchiato Rousseau. Ha avuto grandi meriti nell’ambito della botanica. Il fatto di aver vissuto in Piemonte deve averlo aiutato».
Legge poco, ascolta musica?
«Tantissima. Da Mozart e Rossini a Schönberg.
Ovviamente Bach e Beethoven. Il giro è largo. Per anni sono stato un fedele frequentatore di Salisburgo. Oggi più che ai concerti ripenso alle giacche che dovevo indossare. La vecchiaia ha di bello che puoi essere un po’ trasandato. Da ragazzo ci tenevo a vestirmi bene».
Come è stato per un contadino-giardiniere vivere questo lungo anno e mezzo di pandemia?
«Non me ne sono accorto più di tanto. A un certo punto ho avuto un po’ paura, ma il medico mi ha rassicurato. Nelle giornate brutte ho scritto il libro e in quelle belle potavo e pulivo il giardino».
E oggi?
«È un giorno come ieri. Ma anche se l’orizzonte tende a stringersi, vedo il futuro allargato da pensieri essenziali che prendono forma».
È questa la vecchiaia?
«La vecchiaia è soprattutto cadere il meno possibile. I medici diventano presenze consuete. Infine accada quel che deve accadere».
Si alza sempre presto?
«Un tempo la sveglia era alle sei e mezza. Ora che sono vecchio mi alzo più tardi. Giro per casa in pigiama, prendo un caffè lunghissimo, divido un biscotto con il cane e poi comincio la giornata. Non sono sposato, non ho figli. E non ne sento la mancanza. A volte ci possono capitare mogli cattivissime e figli deludenti».
Ho visto che il libro è dedicato a Valeria.
«È stata la donna della mia vita. È mancata. E per chi mi conosce sa che mi ha insegnato a ragionare e a capire il prossimo. Mi ha insegnato a stare al mondo. E, grazie a lei, mi sento come una vecchia pianta che resiste agli sbalzi di umore e agli anni che passano».